Don Dante Clauser, il chiodo fisso dei poveri
di Vincenzo Passerini
Don Dante Clauser, una vita col chiodo fisso dei poveri. Nacque il 7 dicembre 1923 in una camera d’albergo, a Lavarone (Trento), dove alloggiavano i suoi genitori.
Suo padre Luigi, originario di Cloz in Val di Non, era “assistente in contrario”, come si chiamavano allora i tecnici della Provincia che controllavano i lavori pubblici, e a Lavarone stava seguendo il nuovo acquedotto.
La mamma, Amalia Tamanini, di Mattarello, era maestra e appassionata dell’Alighieri. Fu lei a volerlo chiamare Dante.
Per il lavoro itinerante del padre, la famiglia cambiò spesso residenza (Pergine, Trento, Folgaria). Ma dappertutto il piccolo Dante era considerato dai compagni di scuola un “signorino”, come racconta nella sua autobiografia (La mia strada, Il Margine, 2006).
Rimarrà legatissimo ai genitori per tutta la vita, ma quelle origini borghesi e benestanti, che lo avevano isolato dal popolo, le visse poi con un senso di colpa.
La sua scelta dei poveri e di una vita povera cominciò nel paese di Calavino, giovane cappellano subito dopo la guerra, dove raccolse in canonica i bambini poveri, sfamandoli e vestendoli, con l’appoggio del parroco e l’aiuto della popolazione.
Scelta che continuò poco dopo a Levico, chiamato a dirigere la Piccola Opera Divina Misericordia, fondata da don Ziglio, dove nelle ex caserme venivano accolti bambini e giovani in difficoltà. E che continuò nei primi ’50 a Bolzano, dove nelle tristissime costruzioni dell’ex lager, che avevano visto ospitare e transitare tanti ebrei e resistenti incontro alla morte, don Dante fu chiamato a realizzare una casa di accoglienza per bambini poveri.
Attivissimo, vigoroso, entusiasta, fu chiamato a Roma a occuparsi di adulti scouts. Ma vi restò poco. Non gli piaceva la capitale, temeva per la sua salute spirituale.
Rientrò e scelse il paesino di Vignola di Pergine per disintossicarsi dalle manie di grandezza.
Lì, e poi a Vezzano, fu un parroco memorabile. Finalmente poteva vivere in mezzo al popolo, in semplicità e povertà.
Poi il vento impetuoso del Concilio. Don Dante nel marzo del 1964 è parroco in san Pietro, la più vasta parrocchia della città.
La riforma liturgica e la commissione ecumenica lo vedono tra i protagonisti, anche a livello diocesano. Ed è protagonista, pure, nel 1965, insieme allo storico don Iginio Rogger, della traumatica abolizione del culto del Simonino, santo amatissimo nella sua parrocchia, finto martire cristiano di un inesistente sacrificio attribuito nel 1475 ad alcuni ebrei, poi orrendamente giustiziati. Critiche su di lui a non finire, ma non gli manca il sostegno dell’arcivescovo Gottardi.
Le clamorose prediche di don Dante in san Pietro all’insegna della chiesa povera e dei poveri, e in dialogo coi fedeli, scuotono la città. E così altre scelte dirompenti accanto ai lavoratori e ai diseredati.
Poi, nel 1977, l’addio alla parrocchia e la scelta di vivere coi poveri. Per un po’ di mesi vive coi barboni, vuole condividere, non fare carità.
Poi si accorge che non ce la fa, che non sarà mai come loro, che sarebbe ipocrita pensarlo.
E allora, con alcuni amici, dà vita nel ’79 al Punto d’Incontro, la cooperativa di accoglienza per le persone senza dimora.
E lì sarà testimone di povertà e di solidarietà fino alla morte, l’11 febbraio 2013.
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Articolo pubblicato su “Punto Notizie. Bimestrale della cooperativa Punto d’Incontro”, gennaio-febbraio 2014, numero speciale intitolato “Povertà, Giustizia sociale, carità” e dedicato a don Dante Clauser a un anno dalla morte, con scritti di Vincenzo Passerini, presidente della cooperativa Punto d’Incontro, Milena Berlanda, Silvia Sandri, Piergiorgio Bortolotti, Alberto Cortelletti, Angelo Poletti, Francesca Sevegnani, padre Fabrizio Forti, Mauro Pizzini, Francesca Ferrari, Claudio Bertolli, Stefano Bleggi, Piergiorgio Paganini, Kailou Bamba, padre Giorgio Antonio Butterini, Donata Borgonovo Re, Vigilio Valentini, Bruno Masé.
Addio, don Dante, arrivederci. E grazie.
di Vincenzo Passerini
Gli ospiti del Punto d’Incontro, i suoi amici più cari, i poveri ai quali aveva dedicato tutta la vita erano nei primi banchi del duomo a dargli l’ultimo saluto.
Stranieri e italiani, cristiani e musulmani, credenti e atei. Con don Dante i muri di separazione erano caduti anche in morte.
Con don Dante, anche in morte ai poveri veniva restituito il primo posto nella chiesa, così come voleva il suo fondatore, Gesù Cristo.
Ma veniva restituito ai poveri anche il primo posto nella scala sociale, nella dignità sociale, così come avevano voluto i grandi riformatori e rivoluzionari di ogni tempo.
Don Dante è stato un rivoluzionario nonviolento in nome del Vangelo. Per amore dei poveri.
Un amore che lo ha accompagnato per tutta la vita e di cui il Punto d’Incontro è stato l’ultimo atto. Un amore concreto. Fatto di vita quotidiana con i poveri. Fatto di vita personale semplice e povera.
Don Dante si è spento nel pomeriggio dell’11 febbraio 2013 all’ospedale San Camillo di Trento dopo alcuni giorni di ricovero, assistito fino all’ultimo dagli amici del Punto d’Incontro, la sua famiglia.
Poche ore prima il mondo era stato scosso dall’annuncio delle dimissioni di papa Benedetto XVI. Don Dante aveva già perso conoscenza e non ha potuto sentire quell’annuncio rivoluzionario che umanizzava il papato. Ma quanto gli sarebbe piaciuto.
Così come non ha potuto assistere all’arrivo ancora più rivoluzionario di papa Francesco.
Papa Francesco!
Quel nome così caro a don Dante, il santo da lui più amato, e ora era lo stesso papa che se lo poneva come modello e che voleva “Una chiesa povera e per i poveri”.
Per tutta la vita don Dante ha sognato questo e si è battuto per questo. Quello slogan è stato il suo programma di vita. Una chiesa povera e per i poveri.
Ha anche sofferto tanto per questo, è stato anche deriso e offeso per questo.
Ma ha tirato diritto, con coraggio, sostenuto dalla sua fede e da un gioioso, indistruttibile amore per la vita.
Ai precursori non è dato veder realizzarsi le loro speranze. Ma è questo che insegnano con la loro coraggiosa testimonianza. Bisogna crederci fino in fondo alle proprie speranze. Anche se tutto sembra dire che non si realizzeranno mai. Bisogna crederci.
Addio caro don Dante, arrivederci. E grazie.
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Editoriale di “Punto Notizie. Bimestrale della cooperativa Punto d’Incontro”, gennaio-aprile 2013, numero speciale dedicato alla scomparsa di don Dante Clauser intitolato “Addio, don Dante, arrivederci. E grazie” con scritti di Vincenzo Passerini, Piergiorgio Bortolotti, Alberto Cortelletti, Angelo Poletti, padre Fabio Garbari, Silvia Sandri, padre Giorgio Antonio Butterini, Luigi Bressan (arcivescovo di Trento), Maria Carla Acler e Carlo Borzaga, padre Alex Zanotelli, don Vittorio Cristelli, don Luigi Ciotti (omelia alla messa funebre), Davide Negri, Abdelhafid Mohy-Eddine, nonna Renata, don Andrea Gallo, Paolo Frigo e altre brevi testimonianze di volontari, ospiti, amiche e amici.
Don Dante: parole e immagini
Quando ero adolescente erano i tempi del ventenno fascista, e io non vi nascondo di essermi lasciato entusiasmare. Contemporaneamente ero entusiasta dei trionfi della chiesa cattolica. Quando, adolescente appunto, entrai in Seminario, portavo al bavero della giacca il distintivo del fascio ed accanto il distintivo dell’Azione cattolica. I superiori del Seminario, come allora si usava, mi fecero poi levare la giacca e indossare la veste talare, ed io la portai con l’orgoglio di una divisa.
Oggi la veste talare la porto ancora durante la settimana santa, non più con l’orgoglio della divisa, ma con la gioia del mio sacerdozio.
Vi racconto queste cose per dirvi che la conversione non è un colpo di fulmine, ma è una maturazione, alimentata anche dagli errori e dai colpi bassi della vita dei quali Dio si serve per farci riflettere sui valori profondi, cioè per convertirci.
(Don Dante Clauser, da La strada stretta. Pensieri e parole per un cammino verso la Pasqua, Vita Trentina Editrice, 2001).
Vignola era un paesino di circa 200 abitanti sparsi sulla montagna. Erano boscaioli e minatori che lavoravano nella miniera locale estraendo fluorite, barite e piombo…
Rimasi a Vignola quattro anni: furono i più belli del mio sacerdozio.
Una volta alla settimana entravo nella miniera a confortare i minatori che lavoravano in stretti cunicoli, in condizioni disastrose. Giravo di maso in maso a trovare la gente. Non mi mancava niente. Quando tornavo a casa trovavo sul tavolo la polenta, i crauti, il pranzo senza sapere chi l’aveva preparato. Quando cadde la prima neve il capofrazione andò a Pergine e mi comprò un bel paio di scarponi …
Ogni tanto arrivavano i finanzieri alla ricerca di grappa distillata di contrabbando. Io sapevo dov’era l’alambicco, correvo in chiesa e davo due colpi di campana. Subito le damigiane di grappa arrivavavno in chiesa che veniva chiusa a chiave. Intanto i finanzieri stavano consumando una buona merenda. Avevano capito il trucco, e mi dicevano: Reverendo, noi non saremmo venuti se qualcuno del posto non avesse fatto la spia. La domenica seguente in chiesa leggevo il vangelo del tradimento di Giuda, e tutti capivano.
(don Dante Clauser, da La mia strada).
Erano mesi che i minatori non vedevano il becco di un quattrino. Presso il piccolo negozio del paese avevo fatto personalmente garanzia per loro. Mi decisi a protestare presso la ditta di Milano. Mi vidi arrivare il rappresentante della ditta che risiedeva a Pergine e che mi gettò sul tavolo i soldi e la nota delle spettanze ai singoli minatori.
Era furibondo. Mi gridò: Prenda, distribuisca e faccia firmare, tribuno della plebe! Suonai le campane e feci quanto dovevo, felice ma con l’amaro nel cuore pensando che quei soldi erano fatica, sudore e morte.
(don Dante Clauser, da La mia strada).
Sorse nel rione di San Pietro il ‘comitato di quartiere’. Come primo obiettivo si pose il problema degli alloggi miserabili che sorgevano a tergo delle facciate monumentali di via S. Pietro e via Suffragio. Io li conoscevo molto bene: li avevo ripetutamente visitati, fermandomi a parlare con le famiglie che vi abitavano. Era la parte più povera della parrocchia, e quindi la zona che mi stava più a cuore. Dei loro problemi avevo parlato ripetutamente in chiesa e con le autorità.
(da La mia strada).
[Il 1968] Per conoscere volevo vedere e parlare con chi manifestava e anche con chi deplorava. Quindi alle manifestazioni andavo. Spesso incontravo don Grosselli e il mio carissimo amico padre Angelico Kessler, il cappuccino fratello del fondatore dell’università. Più volte assieme a padre Angelico fuggimmo per vicoli per evitare le manganellate dei poliziotti che pestavano senza guardare in faccia a nessuno
(da La mia strada).
Decidemmo di tentare una quaresima dialogata. Iviai un invito a tutti i parrocchiani. Vennero numerosi, anche da altre parrocchie. Si svolgeva così: iniziava in chiesa, alle ore 20, ogni martedì e giovedì. Presidevo personalmente in camice e stola, perché fosse ben chiaro che si trattava di un atto liturgico.
Dopo il canto del ‘Miserere’ in italiano, si leggeva ilprimo brano biblico della Messa delgiorno. Seguiva una pausa di silenzio. Poi la seconda lettura della Messa, seguita da un’altra pausa di riflessione silenziosa.
Dopo aver fatto una berve introduzione sull’ambientazione storica delle letture, davo la parola ai laici. Intervenivano studenti di sociologia, ma anche madri di famiglia, artigiani, operai, gente comune che magari parlava in dialetto.
(da La mia strada)
Da tempo avevo superato il ‘mezzo del cammin di nostra vita’: avevo quasi 54 anni. Era giunta l’ora di realizzare il desiderio che da anni coltivavo nel cuore: quello di una completa condivisione. Dopo avergli parlato a voce, scrissi all’Arcivescovo che mi concedesse la grazia di lasciare la parrocchia per andare sulla strada, per “essere amcio di coloro che non hanno amici”.
Momsignor Gottardi me la concesse, confermandomi la sua stima e fiducia, e vedendo nella mia scelta un segno di vocazione. Nella festa dell’Ascensione del 1977, durante l’omelia comunicai alla comunità parrocchiale la mia decisione…
Presi in affitto un appartamento in piazza Lodron. Mi costava pochi soldi, perché era proprio in pessime condizionio: ogni notte dalle assi sconnesse del pavimento uscivano gli scarafaggi a farmi compagnia…A mangiare andavo qualche volta alla mensa della Caritas, più spesso alla mensa per i poveri dei frati dove incontravo i miei amici barboni…
(da La mia strada)
Il 13 febbraio 1979, in uno studio notarile, in nove amici fondammo la Cooperativa Punto d’Incontro. Cominciava una nuova avventura, della quale non scrivo nulla. Ne ha scritto e ne scriverà il mio compagno di tanti anni Piergiorgio Bortolotti (il suo libro sarà pubblicato in questa collana).
(don Dante Clauser, da La mia strada).
“Per tutti il Punto d’Incontro è la “casa dei barboni” e con questo si vuole dire, spesso, una realtà dalla quale girare al largo perché frequentata da gente poco raccomandabile.
Chi sono i barboni?
Qualcuno ti risponderà che sono quelle figure più o meno romantiche che hanno scelto la strada per loro dimora.
Qualcun altro che sono degli avanzi di galera; altri, ancora, degli ubriaconi, dei sudicioni, degli attaccabrighe oppure delle persone simpatiche con le quali scambiare due chiacchiere.
Giudizi sommari, superficiali che colgono qualche cosa di vero ma che rappresenta la crosta, l’involucro esterno dei nostri amici.
Sarà banale, o rischia di apparire tale, ma per noi sono soprattutto delle persone che portano dentro una dignità che appartiene loro in quanto persone.
Nostro compito, su questo non abbiamo dubbi di sorta, è far emergere questa loro dignità, aiutarli a riconoscerla ed appropriarsene per ritornare a vivere. “(Piergiorgio Bortolotti, da Punto d’Incontro)
“Trent’anni or sono incontrai don Clauser. L’ho sempre considerato maestro di spiritualità, d’umanità, di saggezza. ..Dante ha insegnato l’arte dell’ascolto. Non si tratta di cercare nell’altro ciò che vi è di più simile a me e almio ambito religioso e culturale – questa sarebbe la smentita più netta del dialogo – bensì di cogliere l’altro e di accoglierne l’alterità” (don Andrea Gallo, dalla Prefazione a Punto d’Incontro di Piergiorgio Bortolotti)
Conoscevo la vita dell’Abbé Pierre, il suo indomito coraggio, le sue lotte in difesa dei poveri, degli emarginati. Ero amico di molte persone che lavoravano nelle varie comunità di Emmaus.
Avevo sognato di promuovere una comunità di Emmaus anche a Trento. Ma per vari motivi a tale progetto avevo dovuto rinunciare. Avevo il desiderio di incontrarlo di persona….
Fu un colloquio indimenticabile. Nonostante le difficioltà della lingua, guardandoci negli occhi ci comprendemmo appieno. Ci accomunava l’idea di donare la vita al servizio dei poveri e degli oppressi. Anche se devo ammettere, putroppo, che l’Abbé Pierre mi superava di sette lunghezze in radicalità evangelica e in coraggio di fronte ai potenti…
Aveva anche le sue debolezze e non le nascondeva. Adesso che se n’è andato nell’eternità vorrei salutarlo col titolo di Santo Peccatore. Chi sono i santi se non peccatori salvati dall’infinita miserivordia del Padre?
(da don Dante Clauser, “Il mio incontro con l’Abbé Pierre”, articolo scritto per il mensile “Il Margine”, n. 2, 2007, in occasione della scomparsa dell’Abbé Pierre avvenuta il 22 gennaio 2007).
“Cosa dire di quell’anno?[1984] Che io studiavo introduzione alla teologia e alla Bibbia e la gente mi introduceva a Dio e alla sua forma di parlare.
Vive ancora in me l’amicizia col Tullio sghèrlo, col Tulio lingéra, col Gufo, col Fantastic Bielis, col Bepi dai cagnoti, col vecio Toni, e poi…i nomi e i visi che ho dentro di me, chiari e confusi a un tempo, però tutti rappresentano chiaramente quel volto di Dio che mi si è rivelato in loro e che mi sta accompagnando sempre!
Poi mi ricordo ancora il giro di boa che mi fece dare don Bolognani, il buon don Memo: mi incontrò un giorno, lui con la sua veste talare nera, lucida e rammendata, e dopo avermi chiesto notizie di me, del “Punto”, del seminario, mi fece quella domanda che non ho più dimenticato: “E i poréti, lì da don Dante, èi contenti de ti? Cosa dìsei de ti?”.
Benedetto don Memo! Non importa quel che faccio, non importano i frutti: importa solo il giudizio che testimonieranno su di me ‘i poréti’ ” (padre Fabio Garbari, gesuita e missionario in Bolivia, nella sua testimonianza raccolta e pubblicata da Piergiorgio Bortolotti nel libro Punto d’Incontro).
Un giorno di parecchi anni fa, in Senegal, io insieme ad altri, fra cui l’amico Romano Broseghini che allora viveva in quel paese e conosceva la lingua wolof, e quindi fungeva da provvidenziale interprete (guarda caso, è lo stesso Romano che tuttora lavora come operatore presso il nostro laboratorio), giungemmo in un piccolo villaggio.
Come bisognava fare, mi presentai al capo del villaggio e – sempre per mezzo di Romano – chiesi di visitare la piccolissima e malridotta moschea che stava al centro del villaggio. Il capo chiamò gli anziani e comunicò loro la mia richiesta. Forse la mia lunga barba e il mio sorriso cordiale li convinsero. Mi fu accordato il permesso.
Levate le scarpe e messo in testa uno zucchetto che portavo sempre con me, entrai nella moschea arredata soltanto di alcuni vecchi tappeti distesi sul pavimento. Appoggiato al mio bastone e attorniato dagli anziani pregai a lungo in silenzio.
Usciti dalla mosche sentii che gli anziani parlottavano fra loro. Chiesi all’interprete: Cosa dicono? Mi rispose: sono meravigliati perché un prete cristiano ha pregato nella loro moschea. Gli dissi: traduci. ho pregato nella vostra moschea, ed ho pregato Allah. Allah è il Dio di ABramo, di Isacco, di Giacobbe. Il Dio Padre del mio Gesù Cristo è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Abbiamolo stesso Dio.
Mi venne in mente quello che diceva papa Giovanni: cercate sempre quello che ci unisce, non quello che ci divide. Mi sembra che questo debba essere il motto ispiratore del Pundo d’Incontro, oggi come ieri, domani come oggi.
(da La mia strada).
I profeti dell’Antico Testamento annunciavano che un giorno sarebbe arrivato il tempo dei poveri, degli afflitti, dei perseguitati, degli inutili. Gesù proclama che questo tempo è arrivato: è l’oggi, nel quale noi viviamo. Il Regno di Dio è fra noi. È il capovolgimento dei valori. Di quei valori nei quali credeva la società di ieri, nei quali crede la società di oggi.
Prima di proclamare le Beatitudini, Gesù le ha vissute, circondandosi di ammalati, di sofferenti di ogni genere, di indemoniati, di epilettici e peccatori.
(da Dante Clauser, Vangelo secondo Matteo. Pensieri di un prete di strada, Il Margine, Trento, 2007).
“Caro Dante, sulla strada ci siamo incontrati tanti anni fa e tanta strada abbiamo fatto insieme, prima col Gruppo Abele e poi con il coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza. E poi il tuo grande interessamento per la nascita di Libera. Sì, la strada ci ha insegnato, ci ha veramente insegnato, Dante, a guardarci dentro, a non avere paura delle nostre contraddizioni, delle nostre ambiguità. A non smarrirci. La strada ci ha insegnato a non etichettare nessuno, ma a riconoscere che esistono storie personali di difficoltà, di fatica, i volti, i nomi delle persone. E la strada ci ha insegnato che la diversità è il sale della vita” (don Luigi Ciotti, dall’Omelia celebrata alla messa del funerale di don Dante).
Francesco non fu un riformatore. Fu un rivoluzionario. Il riformatore corregge un sistema. Il rivoluzionario imbocca coraggiosamente una via nuova. Di fronte al regime feudale basato sui maggiorenti, Francesco e i suoi si presentano come i minori. Di fronte alla borghesia dei ricchi mercanti e possidenti, si presentano come poveri e braccianti. Di fronte alla Chiesa strutturata sul clero, si presentano come laici. Di fronte ai crociati e ai cavalieri che chiamano la gente a combattere, Francesco fonda i terziari francescani che fanno obiezione di coscienza e rifiutano di impugnare le armi
(da Dante Clauser, Francesco d’Assisi, Il Margine 2006).
“Non potrò mai dimenticare la visita di don Dante insieme con don Vittorio Cristelli nella baraccopoli di Korogocho a Nairobi. È stata una boccata d’ossigeno per me che iniziavo la mia immersione nel mondo degli impoveriti. Ci siamo ritrovati con la stessa passione per una chiesa dei poveri e per una chiesa povera. Da quel momento don Dante e il Punto d’Incontro sono diventati per me parte di quel Sogno che ci ha accomunati, il sogno di un mondo ‘altro’. Ringrazio il Signore perché don Dante è stato uno stimolo costante per ricordare all’opulento Trentino a non dimenticare gli emarginati e gli esclusi spesso nascosti agli occhi dei Trentini” (padre Alex Zanotelli, messaggio al Punto d’Incontro in occasione della morte di don Dante).
“Il messaggio che ci viene da don Dante, attraverso la sua esistenza, più ancora che dalle sue parole, che pure ha pronunciato con la schiettezza che lo contraddistingueva, è che siamo tutti fratelli perché figli di uno stesso Padre; che non hanno ragione di esistere discriminazioni di sorta, esclusioni; che tutte le persone hanno diritto a poter vivere una vita dignitosa; che non si può escludere nessuno dal banchetto della vita e che per far questo bisogna che ciascuno si assuma la sua parte di responsabilità.
E infine che tutto questo deve essere fatto accettando di pagarne il prezzo, se occorre; sì, perché a parole sono in molti a sottoscrivere, ma quando si opera davvero in questa direzione si viene anche tante volte osteggiati, considerati dei visionari. Magari poi anche riveriti e qualche volta osannati; difficlmente, o più raramente, imitati” (Piergiorgio Bortolotti, Don Dante visto da vicino, Il Margine, 2016).
In fin dei conti la vita di ogni persona è sempre stata un’avventura irripetibile e sempre lo sarà, per tutti. Sono convinto che la vita di ognuno è una storia unica.
A mio parere ogni bambino che nasce inzia un’avventura segnata dalla parola di Dio che non si ripete mai.
(Don Dante, La mia strada).