I testi della Lettura teatrale di “Utopia”

Nel 2016, in occasione dei 500 anni dalla prima edizione di “Utopia” di Tommaso Moro, la casa editrice Il Margine ha pubblicato una nuova edizione del rivoluzionario libro con la traduzione di Maria Lia Guardini e la cura di Francesco Ghia.

La nuova edizione di “Utopia” è stata presentata con una “Lettura teatrale”, svoltasi a Bolzano il 4 gennaio 2016, al Teatro Comunale di Gries, e a Trento il 9 aprile 2016, al Teatro Sociale.

Introduzioni e scelta dei testi a cura di Vincenzo Passerini.

Voci narranti: Mara Da Roit e Patrizio Zindaco (Bolzano), Andrea Castelli e Luca Pedron (Trento).

Esecuzioni musicali: Gianni Ghirardini (Bolzano) e Bonporti Antiqua Ensamble, diretta da Roberto Gianotti (Trento).

Di seguito pubblichiamo i testi della “Lettura teatrale”: le Introduzioni e la scelta dei passi di “Utopia” a cura di Vincenzo Passerini.

 

Locandina serata a Bolzano

 

Introduzione generale

Nel mese di maggio del 1515 Thomas More – italianizzato in Tommaso Moro, tanto che il primo biografo italiano, Tommaso Regi, ne inventò ascendenze venete – è a Bruges, importante città mercantile delle Fiandre.

Fa parte di una delegazione inglese che deve trattare, per conto del re Enrico VIII, il rinnovo degli accordi commerciali tra l’Inghilterra e i Paesi Bassi, governati dal principe Carlo, presto imperatore.

Ed è qui che, in una lunga pausa estiva delle trattative, comincia a scrivere, in elegante latino, “Utopia”.

Un piccolo libro grondante sofisticata ironia quanto denuncia sociale feroce, dove il realismo si accompagna a una potenza visionaria che non ha uguali. I vari piani vi s’intrecciano e confondono, quanto i confini del vero e del falso, del possibile e dell’assurdo. Come a teatro.

Moro ama il teatro, gioca con la sua materia e con il lettore, si mimetizza dietro personaggi e doppi sensi, vuole che il suo discorso resti aperto, talvolta ambiguo, mai del tutto afferrabile. Ma è un gioco tanto scherzoso e leggero quanto terribilmente serio.

 

Raffaele Itlodeo ha visto Utopia: un altro mondo

Moro immagina, nel libro, di aver incontrato proprio a Bruges, in quel contesto, tramite un amico di lì, Pietro (Peter) Giles, un singolare viaggiatore, il portoghese Raffaele Itlodeo (che vuol dire “il contafrottole”), il quale, prima navigando al seguito di Amerigo Vespucci e poi per conto proprio, ha scoperto l’isola di Utopia (che può voler dire sia “luogo che non c’è”, sia “luogo felice”), dove vigono istituzioni e costumi del tutto differenti, anzi, del tutto opposti a quelli inglesi ed europei.

Utopia è una repubblica democratica, dove non c’è re, non ci sono nobili. Le cariche pubbliche si rinnovano spesso e le votazioni sono segrete. Qui regnano l’eguaglianza e la giustizia (non come da noi, continua a far intendere Moro…).

L’oro è disprezzato, il denaro è bandito, non c’è proprietà privata, e perciò non ci sono né ricchi né miserabili, qui. Quei miserabili che, invece, affollano le città e le campagne d’Inghilterra, le sue prigioni e i suoi patiboli. Non ci sono mercanti e banchieri in Utopia.

Il lusso e gli arroganti segni del potere sono scomparsi, qui. Istruzione e cultura per tutti.

Sanità pubblica garantita, ma soprattutto benessere collettivo che previene le malattie e le sofferenze.

Gusto dello stare insieme, della musica, delle bellezze naturali.

Tutti lavorano, e neanche troppo, e perciò producono quel che basta per tutti, anzi ne avanza, e hanno più tempo per i buoni piaceri della vita.

La guerra è odiata, e così pure i conflitti religiosi, qui.

Un totale rovesciamento dei valori dominanti. Sia quelli della parassita aristocrazia, sia quelli della emergente borghesia, di cui Moro fa parte, sia quelli della Chiesa, cui pure Moro appartiene.

 

Chi è Tommaso Moro

Il Moro che comincia a scrivere “Utopia” non è un giovane e ingenuo sognatore. È un uomo maturo e affermato. Ha 38 anni ed è il più importante avvocato di Londra.

È padre di quattro figli, tre femmine e un maschio, avuti dalla prima moglie, Jane, morta ancor giovane quattro anni prima. Si è subito risposato, con una vedova, Alice, da cui non avrà figli.

È un padre affettuoso e cura l’istruzione dei figli. Le figlie le fa studiare come l’unico maschio. Margaret, la primogenita, sarà una intellettuale di valore, e le storie dell’emancipazione femminile la ricordano.

Dei preziosi servigi dell’avvocato Moro si avvalgono sia le corporazioni dei produttori e dei mercanti sia la Municipalità di Londra, presso la quale svolge, gratuitamente, le funzioni di vicesceriffo, sorta di magistrato civile. Fa anche parte del Parlamento.

 

Umanista

Ma l’avvocato Moro è anche il più raffinato umanista inglese dei suoi anni ed è amico carissimo di Erasmo da Rotterdam, l’intellettuale più importante in quel momento in Europa.

Erasmo ha scritto a casa di Moro, in Inghilterra, sei anni prima, l’“Elogio della pazzia”, in latino “Moriae encomium”, che potrebbe voler dire anche “elogio di Moro”. Una satira feroce, e immortale, dei costumi religiosi e politici dell’epoca.

Erasmo, Moro e gli altri umanisti cristiani europei vogliono radicali riforme: della Chiesa, perché torni alla semplicità evangelica; della cultura, perché riscopra i classici greci; della politica, perché abbandoni avidità e guerre in nome della giustizia e della pace.

Moro ha iniziato a scrivere, un paio d’anni prima, la “Storia di Riccardo III”, una potente rappresentazione del volto demoniaco del potere che rimarrà incompiuta, che sarà pubblicata postuma e che ispirerà il capolavoro di Shakespeare.

È poi autore di caustici epigrammi e ha tradotto in inglese e pubblicato la “Vita di Pico della Mirandola”, scritta dal nipote del geniale umanista italiano, seguace di Savonarola, il profeta disarmato.

 

Cristiano rigoroso, uomo spiritoso

Tommaso Moro è un cristiano di profonda spiritualità e cultura religiosa. Da giovane aveva pensato anche di farsi monaco ed era stato chiamato a commentare in pubblico addirittura “La Città di Dio” di Sant’Agostino.

La preghiera e la messa scandiscono le sue giornate, cariche di impegni familiari, professionali e pubblici; le meditazioni e lo studio occupano le sue notti.

Ma è anche spiritosissimo, la battuta che non lascia scampo sempre pronta. Sforna a ripetizione aneddoti popolari, anche grassi, da osteria.

Al grande avvocato, al raffinato umanista, al cristiano colto e devoto piace stare a contatto col popolo, con la vita concreta dei quartieri, dei mercati, dei tribunali, con gli infiniti problemi della vita delle persone comuni.

E il popolo gli vorrà sempre bene, anche quando cadrà in disgrazia.

 

Nasce “Utopia” e cambia la storia

Questo è l’uomo che a Bruges, città di mercanti e banchieri, comincia “Utopia”, descrivendo la vita sull’immaginaria isola, dove non ci sono né mercanti né banchieri (ma neanche avvocati, come lui).

A ottobre di quel 1515 Moro torna in Inghilterra e nel corso dell’anno seguente completa il libro con quella che ne diventerà la prima parte: un dialogo sui mali sociali dell’Inghilterra del tempo.

Sarà l’amico Erasmo a curare la stampa di “Utopia” che uscirà a Lovanio, piccola ma culturalmente importante città belga, nel dicembre del 1516.

Un piccolo libro, ma “il più sconvolgente che mai inglese avesse fino ad allora pubblicato”, dirà il grande storico britannico dei nostri anni John Scarisbrick.

Un piccolo libro destinato ad attraversare i secoli e a giungere con intatta freschezza e forza provocatoria fino a noi. “Tra i pochi di cui può dirsi che abbiano davvero inciso sulla storia del mondo”, scriverà Luigi Firpo, il maggior studioso italiano del capolavoro di Moro.

Un libro, a lungo, secondo per diffusione soltanto alla Bibbia.

 

Chi ama la realtà non può che essere un utopista

L’utopia è l’invenzione-scoperta di un realista. Se si guarda in faccia la realtà per quello che davvero è, senza infingimenti, ci dice Tommaso Moro, non si può non volerla radicalmente trasformare. In nome di un’altra realtà, che non è ancora, ma che potrebbe essere, dovrebbe essere.

E che forse esiste solo nel cuore degli uomini o nelle pieghe misteriose della storia, in qualche isolotto del globo o dell’anima, pronta a balzare fuori, a rivelarsi se soltanto qualcuno la cercasse e la proponesse come mèta.

Qualcosa di irrealizzabile? Chi lo sa.

Ma esiste, è un pezzo indistruttibile dell’esistenza umana la quale non fa altro che superare i confini dell’esistente.

Il realista più completo, quello che la realtà umana la conosce e la ama per davvero, non può che essere un utopista.

 

Leggiamo “Utopia”

Apriamo dunque il libro e leggiamone alcuni passi.

Nella prima parte, come abbiamo detto, assistiamo a una conversazione tra Tommaso Moro, l’amico Pietro Giles e il viaggiatore portoghese Raffaele Itlodeo. Parlano dei mali sociali dell’Europa e dell’Inghilterra e di come rimediarvi.

È soprattutto Itlodeo che critica aspramente questi mali perché, viaggiando al seguito di Amerigo Vespucci, ha scoperto l’isola di Utopia dove quei mali non ci sono perché lì si sono dati altre istituzioni, altre leggi, altri costumi.

Nella seconda parte, Raffaele Itlodeo racconta cosa ha visto sull’isola di Utopia.

 

“Utopia”- Parte I 

Conversazione tra Moro, Giles e Itlodeo

sui mali d’Inghilterra

La conversazione tra Tommaso Moro, Pietro Giles e Raffaele Itlodeo nella prima parte può essere sintetizzata in tre grandi dialoghi: il dialogo sull’entrare o no nel Consiglio del Re – noi oggi diremmo, con le debite differenze, se impegnarsi o no in politica – ; il dialogo sulle cause della miseria; il dialogo sulla proprietà privata.

 

Utopia di Tommaso Moro nella traduzione di Tommaso Fiore

Utopia nella classica traduzione di Tommaso Fiore (edizione Laterza)

 

Tommaso Moro, ricordiamo, scrive la prima parte una volta tornato in Inghilterra dalla missione di Bruges, dove ha già scritto la seconda parte, quella della descrizione di Utopia.

È proprio nel corso di quel 1516 che è interiormente dibattuto da una opportunità che gli si prospetta: entrare o no nel Consiglio del Re? Il primo dialogo – dove Moro distribuisce i propri dubbi e le proprie convinzioni tra tutti e tre i personaggi – va visto alla luce di questo dilemma concreto che lui si trova ad affrontare mentre scrive “Utopia”. Lui è un riformatore: ma si può riformare davvero stando dentro il palazzo? Alla corte del re? Però: ci si può astenere dal provarci? Dal tentare di migliorare le cose mettendosi al suo servizio?

Il secondo dialogo, quello sulle cause della miseria, è un vero e proprio saggio di analisi economica e sociale nei termini moderni che noi conosciamo. Stupefacente per lucidità, concretezza, coraggio.

Il terzo dialogo, quello sulla eliminazione della proprietà privata, affronta l’aspetto più rivoluzionario e controverso della vita in Utopia.

 

Lettura di passi di “Utopia”

 

Perché non ti metti al servizio del re per il bene della collettività?

«Raffaele, con la grandissima competenza di un esperto conoscitore degli usi e costumi e delle istituzioni di ciascuno dei popoli che aveva visitato – conoscitore tanto esperto che sembrava aver passato tutta la vita sua in ciascuno dei paesi nei quali era giunto –, passò in rassegna sia gli aspetti negativi riscontrabili qui da noi come là da loro – e sono davvero molti, da una parte e dall’altra –, sia le decisioni più corrette prese da ambo le parti.

“Mi domando con meraviglia, mio caro Raffaele – lo interruppe a questo punto Pietro – il motivo per cui tu non ti metta al servizio di qualche sovrano; so di sicuro che non c’è nessuno di loro che non ti sarebbe riconoscente, visto che, con le tue competenze e questa tua conoscenza di luoghi e di uomini, saresti in grado non solo di intrattenerlo piacevolmente, ma anche di istruirlo con esempi e di aiutarlo con buoni consigli; e contemporaneamente, in questo modo, potresti non solo raggiungere un’ottima posizione, ma anche aiutare parecchio i tuoi cari”.

“Per quanto riguarda i miei cari – rispose Raffaele – non mi preoccupo troppo, perché nei loro confronti credo proprio di aver già fatto il mio dovere. Penso dunque che debbano accontentarsi di questa mia generosità e che non possano pretendere e aspettarsi che, per loro, io mi asservisca a un re”.

“Parole sante – disse Pietro –, ma a me sembrava comunque bene non che tu ti asservissi, ma che servissi un re”.

“Ma c’è soltanto una sillaba in più rispetto a servissi”, rispose Raffaele.

A questo punto intervenni io [Tommaso Moro]: “È ben chiaro che, amico Raffaele, non sei assetato né di ricchezze né di potere, e di certo io rispetto e ammiro una persona che ha la tua mentalità non meno di uno qualsiasi di coloro che detengono un grandissimo potere.

Per altro, sembrerà che tu faccia una scelta degna di questo tuo carattere così generoso, da vero filosofo, se accettassi, magari anche con qualche tuo svantaggio personale, di mettere a disposizione del bene della collettività il tuo talento e le tue energie; e questo mai potrai farlo con frutti maggiori che occupandoti di dare consigli a qualche grande principe e convincendolo (cosa che sicuramente ti riuscirà) a fare scelte giuste e oneste.”

 

La saggezza è ridicolizzata dai re

[Raffaele] Non pensi che io, se proponessi a un qualche re sagge decisioni e tentassi di estirpare da lui i perniciosi semi del male, subito sarei buttato fuori o messo in ridicolo?”

 

Non si deve abbandonare la nave nella tempesta

[Tommaso Moro] “Ma anche se non si possono sradicare completamente le opinioni negative, anche se ti risulta impossibile correggere in base alle convinzioni tue gli errori diffusi e ormai anche accettati, non per questo devi rinunciare all’impegno politico, così come, nel bel mezzo di una tempesta, non devi abbandonare la nave solo perché non ti è possibile tenere sotto controllo i venti.

Esattamente come non puoi imporre con la forza un discorso insolito e provocatorio che, lo sai bene, non potrà risultare efficace su persone che hanno idee del tutto diverse; comunque bisogna provarci, magari per vie traverse, e bisogna che tu faccia ogni sforzo per trattare le questioni con tutto il tatto che riesci ad avere.

Poi, quello che non riesci a correggere in positivo, fallo diventare almeno il male minore: non è possibile infatti che tutto vada sempre nel modo giusto, a meno che tutti non siano persone perbene, cosa che non mi aspetto per alcuni degli anni che devono venire”.

 

Divento pazzo come loro

“Ma – disse Raffaele – con questo sistema inevitabilmente succederebbe che, mentre io cerco di curare la pazzia altrui, divento pazzo anch’io insieme con loro”.

 

Frontespizio della prima traduzione italiana di “Utopia” (1548), eseguita da Ortensio Lando, milanese, errabondo umanista e frate agostiniano, e pubblicata a Venezia da Anton Francesco Doni, letterato fiorentino non meno errabondo, autore del romanzo fantastico “I mondi”, ispirato all'”Utopia” di Moro.

 

Dialogo sulla miseria: fanno bene a impiccare i ladri…

[Raffaele racconta che durante un suo viaggio in Inghilterra era stato invitato a pranzo, con altri ospiti, dal cardinale Morton, grande personaggio; e a tavola si era discusso di ladri e poveri]

“Era presente anche un laico, esperto conoscitore delle vostre leggi; questi, partendo da non so quale spunto, cominciò a lodare in modo molto convinto la giustizia severa che allora era applicata ai ladri: raccontava che in molti luoghi venivano talvolta appesi in venti a un solo patibolo.

E diceva di domandarsi con tanto maggiore stupore per quale cattivo destino poteva accadere che tanti andassero in giro ovunque a rubare, sebbene davvero pochi fossero quelli che riuscivano a sottrarsi all’esecuzione.”

 

No, fanno male, bisogna rimuovere le cause che spingono a rubare

“In quel momento trovai il coraggio di parlare davanti al cardinale e dissi: ‘Non meravigliarti; questo modo di punire i ladri non solo è ben oltre la giustizia, ma, in più, non ha nessuna utilità sociale. Infatti, è troppo atroce per punire i furti, e non è certo sufficiente per prevenirli.

Un semplice furto non è delitto tanto grave da esser punito con la pena di morte, e non c’è nessuna pena tanto severa che possa impedire di rubare a coloro che non hanno nessun altro mezzo per procurarsi da mangiare.

A questo proposito mi sembra che non solo voi, ma anche buona parte di questo vostro mondo vi comportiate come quei cattivi maestri che preferiscono bastonare i discepoli piuttosto che educarli.

A chi ruba infatti sono inflitte pene gravi e terribili, mentre sarebbe molto meglio cercare di assicurargli il modo di guadagnarsi il necessario per vivere, perché nessuno si trovi nella necessità terribile prima di rubare, poi di essere giustiziato.’

 

I nobili oziosi vivono del lavoro altrui e creano poveri

‘C’è un grandissimo numero di nobili che non solo vivono oziosi, come dei fuchi, del lavoro di altri, spolpandoli fino all’osso – si pensi solo agli affittuari – per aumentare le proprie entrate (e questa è l’unica economia che conoscono, loro, uomini poi disposti a spendere fino a ritrovarsi poveri), ma che, oltre a questo, si circondano di una grandissima turba di scioperati che mai hanno conosciuto un lavoro per guadagnarsi il cibo.

Questi qui, non appena il padrone muore o sono loro ad ammalarsi, immediatamente vengono cacciati via, perché i nobili mantengono più volentieri chi non fa niente piuttosto che chi è ammalato; e poi spesso l’erede di un morto non è più in grado di mantenere tutti i servitori del padre. Intanto, quelli coraggiosamente devono soffrire la fame se, altrettanto coraggiosamente, non si mettono a rubare.’

 

I contadini sono espulsi dalle terre per far posto alle pecore voraci di ricchi voraci

‘E non è questa la sola necessità che spinge a rubare. Ce n’è anche un’altra, credo, anche più tipica del vostro paese’.

‘Quale?’, chiese il cardinale.

‘Le vostre pecore – risposi –, che di solito sono molto tranquille e si possono mantenere con poco, oggi – a quel che si dice – sono diventate tanto fameliche e incontrollabili che divorano addirittura degli uomini, devastano e saccheggiano campagne, case e città.

È un fatto che proprio nelle zone del regno nelle quali si produce la lana più fine e dunque più pregiata ci sono nobili e aristocratici, e alcuni abati (sante persone!), che non si contentano delle rendite e dei prodotti annuali che di solito dai poderi arrivavano ai loro antenati; non si accontentano del fatto che, vivendo nell’ozio e nel lusso, nulla di buono fanno per la collettività, quando non siano di danno; come non bastasse, non lasciano terreno da coltivare, dedicano tutto al pascolo, distruggono fattorie e città; lasciano in piedi le chiese, ma solo per ricoverarvi le pecore; e, come se poca fosse la terra che da voi occupano riserve di caccia e peschiere, quelle brave persone trasformano in un deserto tutti i luoghi abitati e ogni pezzo di terra che, in qualsiasi posto, sia coltivato.

E così, perché un solo ingordo, insaziabile e funesta rovina della patria, formi un’unica proprietà e circondi con un unico recinto alcune migliaia di iugeri, vengono cacciati via i coloni: e alcuni sono spogliati dei loro

 

Un incontro sull’utopia con la filosofa Agnes Heller, scomparsa il 19 luglio 2019, e Vincenzo Passerini (Bolzano, 4 aprile 2016).

 

terreni o imbrogliati con la frode, o sopraffatti con la violenza, oppure sono forzati a vendere, sfiniti dalle ingiustizie.’

 

Cacciati dalle terre, vivono mendicando

‘Finisce così che in qualsiasi modo questi disgraziati sono costretti ad andarsene: uomini, donne, mariti, mogli, orfani, vedove, genitori con bambini piccoli, e una famiglia più numerosa che ricca, visto che il coltivare la terra richiede molte braccia; se ne vanno via, dicevo, dai loro focolari conosciuti e amati, e non trovano un posto dove ricoverarsi, e, dato che bisogna andar via, vendono per quattro soldi tutte le loro cose, che già di per sé non valgono molto, quando anche rimanesse qualcuno disposto a comperarle.

E poi, una volta consumata, nel giro di poco tempo, la miseria che avevano, che cosa altro resta loro da fare se non mettersi a rubare e finire, di certo giustamente, sulla forca? Che altro resta se non mettersi a vagabondare e a chiedere la carità?’

 

Mettere fine all’accaparramento della terre da parte dei ricchi

‘Eliminate questi mali rovinosi, stabilite che quelli che li hanno distrutti devono ripristinare le fattorie e i villaggi dei contadini o, in alternativa, che li devono cedere a persone che li rimetteranno a posto e che hanno la volontà di ricostruire!

Mettete fine agli accaparramenti da parte dei ricchi, non tollerate più che sia esercitata una specie di monopolio!

Meno persone siano mantenute inattive, fate riprendere la coltivazione della terra, fate ricominciare la lavorazione della lana in modo che ci sia un lavoro onesto nel quale si deve impegnare questo grande numero di sfaccendati, sia quelli che, fino a oggi, la povertà estrema ha fatto diventare ladri, sia quelli che oggi sono vagabondi oppure servi oziosi, destinati, gli uni e gli altri, a diventare ladri!

Sicuramente, se non porrete rimedio a questi mali, non avrà senso celebrare una giustizia finalizzata a punire i furti: sarebbe una giustizia appariscente piuttosto che giusta o utile.’

 

La giustizia è impossibile dove c’è la proprietà privata

‘D’altra parte, mio caro Moro, per esporre con assoluta sincerità le idee delle quali sono convinto, mi sembra proprio che, dove esiste la proprietà privata e dove tutto è valutato e misurato in base al denaro, non è possibile che la vita politica sia gestita con giustizia e con risultati positivi; sempre che tu non sia convinto che giustamente si agisce là dove nelle condizioni migliori si trovano le persone peggiori, o che ci sia prosperità là dove la ricchezza è nelle mani di pochissime persone: e nemmeno loro dovrebbero stare bene davvero se la maggioranza è in miseria.

Per tutto questo mi viene spontaneo ripensare alle istituzioni molto sagge e molto giuste degli Utopiani, perché presso di loro lo Stato è amministrato con poche leggi e in modo efficiente, in modo che il merito sia riconosciuto e, pur nella uguaglianza delle condizioni, ci siano risorse per tutti.’

 

Moro: ma non c’è prosperità senza la spinta del guadagno

‘Ma al contrario – dissi io [Moro]– è mio parere che non si può vivere bene là dove tutto è in comune. Infatti come si potrebbe avere abbondanza di beni se ognuno può sottrarsi al lavoro dal momento che non lo incentiva la prospettiva del suo guadagno e la fiducia nel lavoro degli altri lo rende pigro? E quando fossero in difficoltà per la miseria e non fosse possibile difendere in nessun modo quel poco che uno si fosse procurato, non sarebbe inevitabile trovarsi in mezzo a delitti e sommosse?’

 

Itlodeo: parli così perché non conosci Utopia

‘Non mi meraviglia – disse Raffaele – il fatto che tu la veda così dal momento che tu di questa società [degli Utopiani] non hai nessuna idea, oppure ne hai una sbagliata.

Ma tu a Utopia insieme con me non ci sei stato, e non hai potuto conoscere di persona il loro modo di vivere e le loro istituzioni, come ho fatto io che là ho vissuto per più di cinque anni e mai avrei voluto andarmene via, se non per far conoscere quel nuovo mondo. Se tu avessi fatto questa esperienza, di certo e senza esitare dichiareresti che in nessun posto all’infuori di Utopia hai mai visto un popolo governato così bene.’

 

Moro: allora, Raffaele, descrivici la vita sull’isola di Utopia

‘Allora, mio caro Raffaele – dissi io [Moro]– ti prego e ti supplico di descriverci questa isola. Non costringerti a essere breve, ma descrivi con precisione di particolari le campagne, i fiumi, le città, le persone, i costumi, le istituzioni, le leggi e infine tutto ciò che pensi che noi vogliamo conoscere.’

 

“UTOPIA” – PARTE II

RAFFAELE ITLODEO DESCRIVE LA VITA SULL’ISOLA DI UTOPIA

Raffaele Itlodeo comincia dunque a raccontare cosa ha visto sull’isola di Utopia. Prima la descrive minuziosamente, poi ricorda il ruolo che vi ebbe Utopo, che la conquistò, le dette il proprio nome e cambiò le sue istituzioni e i suoi costumi portandoli a un grado di civiltà mai visto prima,da nessuna parte.

All’origine dell’eccezionalità di Utopia c’è dunque un riformatore. Gli Utopiani non sono così per grazia di natura, ma per volontà umana.

Prima di andare a scoprire almeno alcuni frammenti della vita in Utopia, dobbiamo tornare al suo autore.

Nel 1517, l’anno dopo la pubblicazione del libro, Moro entra nel Consiglio del Re. Ha sciolto i dubbi. È l’inizio di una carriera politica brillantissima, finita però tragicamente, che ha il suo culmine nel 1529,quando il re lo nomina Gran Cancelliere di Inghilterra, seconda carica dopo il Monarca.

Ma in quel 1517, fatidico per Moro, c’è un episodio fatidico per il mondo.

Dopo che nel marzo di quell’anno il Concilio Lateranense V, nato per riformare la Chiesa, si conclude con un sostanziale fallimento, Lutero in autunno affigge le 95 tesi sul portone della chiesa di Wittenberg: è l’inizio della Riforma protestante. Un rivoluzione che travolge l’Europa. Il gruppo degli umanisti cristiani si spacca.

Moro è tra coloro che difendono l’unità della cattolicità. Enrico VIII e la Chiesa di Inghilterra gli chiedono di scrivere contro Lutero. E lui, pur tra i crescenti e sempre più gravosi impegni pubblici, scriverà negli anni seguenti centinaia e centinaia di pagine contro Lutero, i protestanti, i riformatori inglesi. E da Cancelliere li perseguiterà con decisione. Alcuni saranno mandati a morte.

Le due parti avverse non si risparmiano violenze, in parole e in opere. In questo, Moro è figlio del suo tempo, del suo maestro sant’Agostino e di mille anni di sanguinoso contrasto ecclesiale e statale dell’eresia. Ma a quegli uccisi in nome di Cristo noi guardiamo con orrore e pietà.

Con Utopia, e poi con una tragica morte, Moro va invece oltre il suo tempo, le sue miserie e i suoi tragici errori.

La sua morte. Enrico VIII pretende dal Papa, che non ne vuol sapere, l’annullamento del proprio matrimonio con Caterina d’Aragona, che gli ha dato una figlia femmina, ma nessun maschio. È un lungo e complicato braccio di ferro.

Enrico fa approvare dal Parlamento una serie di provvedimenti con cui sottomette il clero d’Inghilterra alla volontà del re. Il clero si adegua, ma non Moro che non condivide e si dimette da Cancelliere, carica che ha ricoperto per poco meno di tre anni. Si ritira nella sua casa, ma nell’aprile del 1534 è imprigionato.

Moro rifiuta, per ragioni di coscienza, di approvare l’Atto di supremazia con cui Enrico si fa nominare capo della Chiesa d’Inghilterra, la quale, invece, ancora una volta, si adegua, ad eccezione del cardinale Fisher e di un pungo di monaci certosini.

Moro è processato e condannato a morte. Il 6 luglio 1535 è decapitato. Al boia non risparmia una battuta spiritosa. Un martire e poi un santo della Chiesa cattolica. Ma anche un testimone universale della libertà di coscienza di fronte al potere politico.

Le leggi vanno rispettate, ma non possono avere potere su tutte le dimensioni della vita. Il re, lo Stato, il potere politico, la legge hanno dei limiti invalicabili di fronte alla persona umana. Così come di fronte alla verità.

Dopo l’Utopia della giustizia, Moro scrive con la sua morte l’Utopia della libertà. E così libertà e giustizia, così spesso in conflitto, finiscono per trovare nella vita e nell’opera di Moro un comune, immortale avvocato.

 

E adesso, riprendiamo a leggere Utopia, l’Utopia della giustizia. Partendo proprio da quelle pagine dove Moro, con mirabile sarcasmo, reso irresistibile dalla traduzione di Maria Lia Guardini, demolisce alla radice il padrone di questo mondo: l’oro.

L’oro, per il quale si schiacciano gli esseri umani.

Non così sull’isola di Utopia, come racconta Raffaele Itlodeo.

 

 

Lettura di passi di “Utopia”

 

Lo splendore di una gemma non è paragonabile a quello di una stella

“Di certo gli Utopiani si meravigliano del fatto che ci siano uomini affascinati dall’ambiguo splendore di una piccola gemma o di una piccola pietra, quando essi hanno la possibilità di guardare una stella o addirittura anche il sole; e si domandano con stupore se ci possa essere una persona tanto fuori di testa da sentirsi più nobile solo per via di un filo di lana più sottile e raffinato, se è vero che quella lana, per quanto sottile sia il filo, una volta la indossava una pecora che nulla altro che pecora è sempre rimasta.”

 

Come è possibile che l’oro valga più dell’uomo?

“Ancor più si stupiscono del fatto che un materiale per sua natura così inutile come l’oro oggi sia considerato tanto prezioso che l’uomo, in virtù del quale ha acquisito il suo gran valore, venga considerato in verità meno prezioso dell’oro stesso, al punto che anche un furbastro qualsiasi, che ha meno intelligenza di un ciocco di legno ed è disonesto non meno che stupido, riesce comunque ad avere al suo servizio molte persone sagge e oneste soltanto per il fatto di possedere un gran mucchio di denaro.”

 

È la stupidità umana che dà valore all’oro e all’argento

“L’oro e l’argento, che da noi sono usati per battere moneta, gli Utopiani li considerano in modo tale che da nessuno sono stimati più di quanto abbia voluto la natura stessa, per la quale – tutti lo possono vedere – sono molto inferiori al ferro, senza il quale (questo è poco, ma sicuro) gli uomini non potrebbero vivere, come non potrebbero vivere senza il fuoco o l’acqua. Invece, all’oro e all’argento la natura non ha dato nessuna utilità alla quale noi non possiamo facilmente rinunciare, se la stupidità dell’uomo non avesse dato un così grande valore alla loro rarità.”

 

Gli Utopiani usano l’oro per i vasi da notte

“Per prevenire questi casi hanno trovato un sistema che tanto è coerente con le altre loro istituzioni quanto è assolutamente in contrasto con le nostre: da noi infatti l’oro è considerato molto prezioso e viene custodito con cura e per questo il sistema loro non è credibile per chi non ne abbia fatta esperienza. Infatti mangiano e bevono in stoviglie di terracotta e di vetro, di certo molto raffinate, ma di scarso valore; invece con l’oro e

 

L’edizione di Utopia curata da Luigi Firpo, il maggior studioso italiano dell’opera, per l’editore Neri Pozza nel 1978.

 

l’argento fabbricano, non solo per le mense comuni, ma anche per le case private, vasi da notte e altri vasi destinati agli usi più umili.
E, ancora, con gli stessi metalli fabbricano catene e robusti ceppi per legare gli schiavi, e infine appendono cerchietti d’oro alle orecchie di quelli che hanno cattiva fama per qualche crimine commesso, e mettono loro anelli alle dita, una collana d’oro al collo e, per finire, con l’oro cingono loro pure il capo.
Così si danno da fare in tutti i modi perché presso di loro l’oro e l’argento siano un marchio di infamia.”

 

Diamanti e rubini, cose da bambini

“Inoltre, raccolgono le perle sulle spiagge, e su certe rocce anche diamanti e rubini; di certo non vanno a cercarli, ma, se per caso li trovano, li puliscono con cura e con essi adornano i bambini piccoli che, se nei primi anni dell’infanzia si vantano e sono orgogliosi di tali ornamenti, appena crescono un poco, senza bisogno del richiamo dei genitori, si accorgono di come soltanto i bambini piccoli portano quelle cose da nulla e finiscono per vergognarsene e le lasciano da parte.”

 

La spassosa visita degli ambasciatori degli Anemolii

“Ma come abitudini tanto diverse da quelle degli altri popoli producano tanto diverse disposizioni d’animo, mai l’ho capito con tale chiarezza come in occasione della visita degli ambasciatori degli Anemolii [popolo].

Spettacoloso davvero era vedere quanto [gli Anemolii] hanno alzato la cresta paragonando il loro elegante abbigliamento con i poveri vestiti degli Utopiani che in massa si erano riversati nelle piazze!

Non meno divertente era considerare quanto furono deluse le speranze e le aspettative degli ambasciatori e quanto lontani furono dall’ottenere la considerazione che credevano di meritare.

Di certo, agli occhi degli Utopiani tutti – tranne i pochissimi che per qualche valido motivo avevano visitato altri paesi – tutto quello splendido apparato sembrava solo motivo di vergogna: salutavano con riguardo i più umili servi invece dei loro padroni e, scambiandoli per servi per via delle catene d’oro, trascuravano senza il minimo riguardo gli ambasciatori in persona.

Avreste dovuto vedere i ragazzi che avevano già abbandonato da tempo gemme e perle: quando ne scorgevano alcune appese sui copricapo degli ambasciatori, si voltavano verso la madre e le davano di gomito dicendo: ‘Mamma, guarda che buono a nulla deve essere quello là che porta ancora perle e pietruzze come fosse un bamboccio!’ E la madre, molto seria, rispondeva: ‘Figlio mio, sta zitto; credo che sia uno dei buffoni degli ambasciatori’.

 

L’edizione di “Utopia”curata da Luigi Firpo per Guida Editori nel 1979. Non c’è il testo latino a fronte dell’edizione Neri Pozza 1978, ma è molto ricca di note. Un’edizione insuperata. In copertina la riproduzione del ritratto di Thomas More eseguito da Hans Holbein il Giovane nel 1527 ed esposto alla Frick Collection di New York.

 

Equilibrio tra lavoro, sonno, tempo libero

“Essi dividono il giorno in ventiquattro ore uguali, contando anche la notte; dedicano al lavoro soltanto sei ore, tre nella mattinata, prima di andare a pranzo, e poi, dopo aver riposato un paio d’ore, altre tre nel pomeriggio, concludendo infine la giornata con la cena. La prima ora la contano partendo da mezzogiorno: verso le otto vanno a dormire e al sonno dedicano otto ore.

Il tempo che rimane oltre le ore dedicate al lavoro, al sonno e ai pasti è lasciato alla libera scelta di ciascuno, ma non perché questi lo sprechi negli eccessi o nell’indolenza, ma perché, libero dall’impegno del lavoro, impieghi bene quel che resta del giorno in qualche attività.”

 

Cultura o mestieri nel tempo libero

“La maggior parte dedica alle lettere questi momenti liberi.
Infatti, è consuetudine che ogni giorno, prima dell’alba, siano tenute lezioni pubbliche alle quali hanno l’obbligo di assistere soltanto coloro che, scelti uno per uno, sono stati destinati agli studi. Tuttavia, uomini e donne insieme, di ogni condizione, si radunano in gran numero per assistere alle lezioni, chi a una, chi all’altra, a seconda del personale interesse.

Se però qualcuno preferisce dedicare il tempo libero al suo mestiere – cosa che fanno molti che non hanno alcun interesse per gli argomenti oggetto di insegnamento –, questo non è proibito, ma anzi lodato come attività utile per lo Stato.”

 

Agricoltura per tutti e un mestiere per tutti

“La coltivazione dei campi è un mestiere comune a tutti, uomini e donne, e da questo nessuno è esentato. Tutti sono educati a questo mestiere fin da piccoli, in parte con le regole insegnate a scuola, in parte con uscite, organizzate come fossero un gioco, nei campi vicini alla città: e questo non solo perché i ragazzi osservino, ma anche perché partecipino attivamente al lavoro, il che fornisce pure l’occasione per una sana attività fisica.

Oltre all’agricoltura – che, come detto, è attività comune a tutti – ognuno impara un altro mestiere, quello per il quale ha più inclinazione: lavorare la lana o tessere il lino, fare il muratore, il fabbro ferraio o il falegname; laggiù non esiste nessun altro mestiere che occupi un numero consistente di persone.

I vestiti – la cui forma, salvo le differenze che permettono di distinguere uomo e donna, celibe e sposato, è unica per tutta l’isola, sempre uguale per tutte le età, non sgradevole alla vista, comoda per tutti i movimenti, adatta sia per l’inverno che per l’estate –, questi vestiti, dicevo, ogni famiglia li confeziona da sé.”

 

Gli ammalati al primo posto

“La prima preoccupazione è però per gli ammalati che sono curati in ospedali pubblici. Ancora nell’area urbana, ma un po’ fuori le mura, hanno quattro ospedali tanto grandi da sembrare essi stessi delle piccole città: questo sia perché un numero magari consistente di malati non si venga a trovare in spazi ristretti, e dunque a disagio, sia perché possano essere isolati da ogni contatto pazienti affetti da una malattia contagiosa che può essere trasmessa ad altri.

Gli ospedali sono così strutturati, e sono forniti in abbondanza di tutti i mezzi utili per far guarire i malati, e poi il modo di curare è tanto sensibile e attento, tanto continua è la presenza dei medici più esperti che, anche se nessuno viene mai ricoverato contro la sua volontà, in tutta la città non c’è persona che, colpita da qualche malattia, non pre-ferisca il letto dell’ospedale a quello di casa sua.”

 

La caccia è abolita: non si ammazza per piacere

“Gli Utopiani tutta quanta l’attività di caccia, come pratica indegna di uomini liberi, l’hanno lasciata ai macellai: come già ho detto questa attività è affidata agli schiavi.
Pensano che la caccia sia la forma più vile della macelleria, mentre le altre sue forme sono più oneste e rispettabili, in quanto sono molto più utili, senza contare che i macellai ammazzano gli animali solo per necessità, mentre il cacciatore cerca il suo piacere nell’uccisione e nello strazio di una povera bestia.”

 

Schiavi solo gli assassini, invece di giustiziarli

“Non considerano schiavi né i prigionieri di guerra – a meno che non siano loro gli aggressori –, né i figli degli schiavi, né, infine, qualcuno che possono aver comperato mentre era schiavo presso altri popoli, ma solo qualcuno che presso di loro è stato ridotto

 

L’edizione di Utopia della casa editrice Il Margine, con la traduzione di Maria Lia Guardini e la cura di Francesco Ghia. La copertina è di Giacomo Bonazza.

 

in schiavitù per qualche delitto commesso oppure – e questo è il caso di gran lunga più frequente – quelli che, in città straniere, sono stati condannati a morte per un delitto commesso. Infatti di questi se ne portano via molti, a volte pagandoli pochissimo, a volte ottenendoli gratis.”

 

Agli Utopiani piacciono i buffoni

“Agli Utopiani piacciono molto i buffoni e, mentre è considerato disdicevole offenderli, non sono contrari al fatto che uno si diverta grazie al loro comportamento bizzarro ed estroso, e di certo questo è un grosso vantaggio per i buffoni stessi.

Non li affidano alla tutela di uno talmente austero e serio che non c’è gesto o battuta che lo faccia ridere, perché temono che il buffone non sia sufficientemente tutelato da una persona che li considererà del tutto inutili e non li troverà divertenti (quando proprio l’essere divertenti è invece la loro unica capacità).”

 

Ognuno professa la religione che vuole

“Poiché Utopo fin dall’inizio era venuto a sapere che, prima del suo arrivo, gli indigeni avevano continuamente combattuto tra loro per motivi religiosi, finì per accorgersi che le varie parti in conflitto, incapaci di trovare un punto di comune accordo, combattevano tutte, ognuna per suo conto, per la patria, e che proprio questo loro essere divise aveva a lui consentito di vincerle tutte; così, ottenuta la vittoria, stabilì che ognuno potesse liberamente professare la religione che voleva, ma che per convertire altri doveva presentare la propria fede in modo pacato e tranquillo, senza attaccare con ostilità tutte le altre; se non riusciva con la persuasione, non doveva usare nessun tipo di violenza, astenendosi dalle offese.

Colui che discute di questo argomento con troppa aggressività, lo puniscono con l’esilio o con la schiavitù.”

 

Amano la vita in comune, per questo hanno voluto diventare cristiani

“Ma dopo che da noi ebbero imparato a conoscere il nome di Cristo, i suoi insegnamenti, il suo modo di vivere, i suoi miracoli, e la non meno prodigiosa fermezza di tanti martiri il cui sangue, volontariamente versato, ha convertito al cri-stianesimo un gran numero di popoli in ogni parte del mondo, è quasi incredibile quanto anche loro siano stati pronti ad accogliere questa religione, o perché Dio li ha ispirati nel segreto dell’anima, oppure perché essa è sembrata molto vicina alla credenza che tra loro è prevalente.

Sono tuttavia convinto che un’importanza decisiva l’abbia avuta il fatto che avevano sentito dire che Cristo approvava la vita in comune dei suoi, e che questa consuetudine è ancora oggi in uso presso i cristiani più autentici.”

 

I sacerdoti si sposano, sono eletti dal popolo e ci sono anche donne sacerdote

“Anche i sacerdoti, al pari di tutte le altre magistrature, sono eletti dal popolo con scrutinio segreto, per evitare parzialità e favoritismi. Dopo l’elezione, sono consacrati dai loro colleghi. Essi presiedono le cerimonie religiose, curano le questioni ri-guardanti la religione e sono quasi dei censori dei costumi: è motivo di profonda vergogna l’essere da loro convocati e accusati di vivere in modo poco onesto.

I sacerdoti (sempre che non siano donne, caso non escluso, benché più raro: può essere infatti eletta soltanto una vedova di età matura) prendono in moglie le donne più eccellenti del paese.”

 

Non c’è separazione tra popolo e governanti

“A chi briga per ottenere per sé una qualche carica tolgono la speranza di ottenerne mai una.

Tra loro vivono in modo semplice, e nessun magistrato è arrogante o incute paura; sono chiamati padri e da padri si comportano, e a loro, come è dovuto, viene reso onore, ma soltanto da parte di quelli che lo desiderano, visto che l’onore non è assolutamente preteso.

A distinguere il magistrato dagli altri cittadini non sono né il vestito né un diadema, ma solo un mazzetto di spighe che porta in mano, così come il sommo sacerdote si riconosce da un cero portato da uno che lo precede.”

 

Poche leggi e nessun avvocato

“Di leggi ne hanno davvero poche, perché sono pochissime quelle che bastano a persone educate in quel modo.
Anzi, quello che essi rinfacciano in primo luogo agli altri popoli è il fatto che i libri di interpretazione delle leggi, pur essendo tantissimi, non sono mai sufficienti.

Giudicano inoltre assolutamente ingiusto che le persone siano obbligate a rispettare delle leggi che o sono troppo numerose perché si possa esaminarle tutte con precisione, o troppo oscure perché le si possa interpretare: per questo tengono assolutamente lontani avvocati che discutono le cause sulla base di cavilli oppure mettono in discussione le leggi con scaltrezza.

Credono piuttosto che sia utile che ciascuno difenda da sé la propria causa, ed esponga direttamente al giudice le ragioni che avrebbe esposto al suo difensore.”

 

Disprezzano la guerra e le sue glorie

“Considerano la guerra cosa assolutamente belluina – anche se nessuna specie di belve ricorre a essa altrettanto quanto l’uomo – e, al contrario di quasi tutti gli altri popoli, nulla ritengono così inglorioso come la gloria conquistata in guerra.

Per questo, anche se con assiduità si addestrano in giorni stabiliti, e non soltanto gli uomini, ma anche le donne, per non essere impreparati a combattere quando ce ne sia la necessità, una guerra non la intraprendono senza serie ragioni, ma soltanto per difendere il loro territorio, oppure per respingere dei nemici che abbiano invaso le terre di popoli amici, oppure ancora per liberare – con le loro forze e spinti dal senso di umanità – dalla schiavitù e dalla tirannide qualche popolo del quale hanno compassione proprio perché dalla tirannide è oppresso.”

 

Un incontro sul coraggio dell’utopia con padre Alex Zanotelli e Vincenzo Passerini.

 

Usano ogni mezzo pur di evitare che muoiano in tanti per colpa di pochi

“Provano non solo rincrescimento, ma anche vergogna per una vittoria cruenta, convinti che sia insipienza aver acquistato a un prezzo eccessivo delle merci, per preziose che siano; si vantano invece e gioiscono se riescono a sconfiggere e schiacciare il nemico con espedienti e inganni; in tal caso, celebrano un pubblico trionfo ed erigono un trofeo per il successo ottenuto.

Così, subito dopo la dichiarazione di guerra, nei luoghi più frequentati del paese nemico in gran segreto fanno affiggere molti manifesti con timbro ufficiale dello Stato, con i quali promettono ricchissime ricompense a chi eliminerà il principe nemico.

Questa consuetudine di comprare e corrompere i nemici con denaro – considerata presso altri popoli azione assolutamente deplorevole – è per loro invece degna di lode e indice di saggezza, perché con questo sistema riescono a concludere le guerre più importanti senza nemmeno scendere in campo; essa dimostra anzi anche la loro umanità e misericordia, perché con la morte di pochi colpevoli salvano le vite di molti innocenti che sarebbero stati destinati a morire in combattimento sia dalla loro parte, sia dalla parte dei nemici.”

 

Utopia è una vera repubblica, altrove dominano gli interessi privati

“Vi ho descritto nel modo più veritiero possibile la forma di Stato che secondo me non solo è la migliore, ma anche l’unica che a buon diritto possa rivendicare per sé il nome di ‘repubblica’.

Di certo perché, mentre altrove sempre si parla di interesse pubblico, ma si curano solo gli interessi privati, laggiù, dove invece non esiste nulla di privato, fanno politica sul serio.”

 

Altrove non c’è giustizia: i ricchi vivono nel lusso sfruttando chi lavora

“A questo punto, mi piacerebbe che qualcuno avesse il coraggio di mettere a confronto il senso dell’equità degli Utopiani con il senso della giustizia degli altri popoli: e mi pigli un accidente se presso questi ultimi riesco a trovare anche soltanto una debole traccia di giustizia e di equità!

Infatti, che razza di giustizia può mai essere quella per la quale un qualsiasi nobile, un orefice, uno strozzino, oppure, in generale, uno qualsiasi di quelli che non fanno mai niente di niente, oppure quello che fanno non è per nulla utile alla collettività, si garantiscono una vita ricca e splendida senza fare nessun lavoro, oppure facendone uno del tutto inutile, mentre un manovale, un cocchiere, un fabbro, un contadino – che fanno un lavoro tanto faticoso che nemmeno una bestia da soma lo sopporterebbe, o tanto necessario che, senza di esso, lo Stato non potrebbe sopravvivere nemmeno per un anno – mettono insieme mezzi tanto scarsi e vivono una vita così misera che sembra essere di gran lunga migliore alla loro la condizione delle bestie da soma, che non semre faticano così di continuo, e non ricevono un cibo molto peggiore (che però per esse è anche più gustoso) e non hanno nessuna preoccupazione per il futuro?”

 

Gli Stati? Un branco di ricconi che si fanno le leggi per sfruttare il lavoro dei poveri

“Così, quando penso a tutti gli Stati oggi esistenti e cerco di analizzarli, mi viene in mente soltanto – che Dio mi aiuti – che si tratta di un branco di ricconi che, a nome e con il pretesto della collettività, si fanno soltanto gli affari loro, e si inventano ed escogitano tutti i modi e gli espedienti per riuscire in primo luogo a non correre il rischio di perdere quello che in modo disonesto hanno arraffato, e poi per riuscire, pagando il meno possibile, ad abusare del lavoro e delle fatiche dei poveri.

Tutti questi espedienti, una volta che i ricchi abbiano deciso, con un decreto pubblico – di tutti, e quindi anche dei poveri – che devono essere rispettati, finiscono per diventare legge.”

 

Moro: mi sembrano assurde le usanze in Utopia… Ma qualcuna di queste mi piacerebbe vederla applicata da noi

[Tommaso Moro] Quando Raffaele ebbe finito il suo racconto, mi venivano in mente non poche usanze e leggi di quel popolo che a me sembravano veramente assurde, non solo riguardo al modo di combattere, alle pratiche di culto e alla religione, e poi anche riguardo ad altre istituzioni, ma in particolare riguardo a quello che è il fondamento principale della loro forma di governo, e cioè la vita e la comunione dei beni senza nessuno scambio di denaro, cosa che da sola basta per eliminare completamente ogni nobiltà, magnificenza, splendore e maestà, che sono, secondo l’opinione comune, vero decoro e vanto di uno Stato.

Intanto, anche se non condivido in tutto e per tutto le cose che sono state dette da un uomo che comunque è sicuramente molto dotto ed esperto conoscitore delle cose umane, tuttavia riconosco volentieri che nello Stato di Utopia ci sono molti aspetti che vorrei vedere applicati nei nostri Stati: ma non ci spero molto…

 

(I passi di “Utopia” sono tratti da Thomas More, Utopia, a cura di Francesco Ghia, traduzione di Maria Lia Guardini, Il Margine, Trento 2015)

 

Vedi anche l’articolo L’utopista Tommaso Moro patrono dei politici

Vedi anche Articolo su Mosaico di pace -Utopia