Il quadro generale del fenomeno migratorio in Italia e nel mondo (2016)

La fame e la migrazione (Dublino, monumento alla “Great Famine”)

I profughi e i migranti mi sono sempre parsi persone molto sole.

Il loro grido di aiuto non è molto ascoltato.

Anche quando ci sono i naufragi dei barconi e la conta dei morti, i cuori che per un momento si sono lasciati scaldare da quelle tragedie tornano presto di ghiaccio.

 

 

 

 

Il quadro generale del fenomeno migratorio in Italia e nel mondo:

dinamiche economiche, demografiche, sociali che determinano le migrazioni (2016)

 

Relazione tenuta da Vincenzo Passerini nel corso delle due Settimane di formazione permanente dei sacerdoti dell’Arcidiocesi di Trento svoltesi a Pergine (Trento), presso Villa Moretta, dal 18 al 22 e dal 25 al 29 gennaio 2016.

 

Il titolo della relazione è piuttosto impegnativo.
Cercherò di offrire almeno alcuni spunti, seppur documentati, per inquadrare il fenomeno migratorio, la questione più importante del nostro tempo. La più imponente, la più drammatica, la più universale. Non c’è angolo del mondo che le sia estraneo.
Chi vi parla non è un esperto, ma semplicemente una persona che ha deciso, più o meno da un ventennio, di occuparsi del fenomeno migratorio come parte fondamentale del proprio impegno culturale, sociale e politico. Partendo non tanto da considerazioni di tipo teorico – per quanto importanti, perché oggi chi vuole conoscere la nostra società deve affrontare seriamentequesto fenomeno –, ma innanzitutto umane.

 

I meno amati

I profughi e i migranti mi sono sempre parsi persone molto sole. Il loro grido di aiuto non è molto ascoltato.
Anche quando ci sono i naufragi dei barconi e la conta dei morti, i cuori che per un momento si sono lasciati scaldare da quelle tragedie tornano presto di ghiaccio.
I rifugiati e i migranti non sono amati.

Spesso invece sono guardati male, se non temuti.
La propaganda politica, poi, gioca sporco su di loro: l’ostilità verso i migranti garantisce voti, il tema è centrale in tutte le campagne elettorali, non solo in Europa.
Non importa se non si ha nulla da dire sull’economia, sul lavoro, sulla famiglia, sulla scuola, sulla guerra, sull’energia, sull’ambiente: parla male dei profughi e hai assicurato un bel gruzzolo di voti. Amplifica, inventa, spaventa: raccoglierai consensi.
I profughi e i migranti sono più poveri degli altri poveri. Anche quando economicamente non lo sono.
Gli altri poveri sono almenoguardati talvolta con una certa simpatia, perfino con romanticismo. Loro mai.
È per questo, soprattutto per questo, che mi occupo di loro.

Più sono rifiutati, e più mi sembrano preziosi.

Più la propaganda si scatena contro di loro, e più suscitano la mia simpatia.

Più si mostrano i loro difetti e i loro errori (che ci sono, e sono anche gravi, più o meno come i nostri), e più a me si mostra il loro bisogno di amicizia (che non è né tolleranza né comprensione, è qualcos’altro).

 

Carichi di un incredibile dolore

Sono solito cominciare i miei incontri con una poesia per ricordarci questo dato umano comune. Vi leggo allora alcune strofe di un canto:

Vestiti di stracci in grandi greggi,
noi, carichi di un incredibile dolore,
ci recammo nella terra grande e lontana.
Alcuni di noi affogarono davvero.
Alcuni di noi morirono davvero di stenti.
Ma per ogni dieci che morirono,
un migliaio sopravvisse e tenne duro.
Meglio affogare nell’oceano che essere
strangolati dalla miseria.
Meglio ingannarsi da sé,
che essere ingannati dai lupi.
Meglio morire a modo nostro che essere
peggio delle bestie.

Sono strofe amarissime tratte dal “Canto degli emigranti”.
Un canto che sembra scritto in questi giorni, ma che risale agli ultimi decenni dell’800. Lo cantavano i migranti tedeschi e italiani che attraversavano l’Oceano in cerca della loro terra promessa.
Se è vero che quella dei migranti è la questione fondamentale del nostro tempo, questo canto ce la ricorda come una questione antica. Di ieri, ma anche di ogni tempo, così come di ogni spazio e di ogni popolo.

 

La fame e la migrazione: Dublino, particolare del monumento di Rowan Gillespie alla “Great Famine”, la grande carestia irlandese che a metà dell’800 provocò più di un milione di morti e due milioni di emigranti. (Foto Vincenzo Passerini)

 

Quel migrante sono io

Ed è su questa condizione antropologica dell’essere umano come essere straniero che si innesta il comando biblico (Esodo, Levitico, Deuteronomio):

(Levitico 19,34).

Un alternarsi di “voi” e di “tu” che non lascia scampa a nessuno: singolo, società, istituzioni.
E che culmina nel comandamento evangelico, che lo porta all’estremo, dove Gesù stesso si identifica con lo straniero:

Ero straniero e mi avete accolto

o

non mi avete accolto

(Matteo 25).

Migranti e rifugiati segnano da sempre la storia. Anche la nostra storia. Con il medesimo carico di speranze e di sofferenze.

Quel migrante sono io, sono i nostri trentini. Quel rifugiato di oggi è mio padre, mia nonna, mio bisnonna rifugiata della prima guerra mondiale.

Una comune condizione umana.
Il senso di questa premessa è proprio qui: quando parliamo di migranti e di profughi parliamo anche di noi, non solo degli altri.

Con questo spirito anche noi italiani, noi trentini dobbiamo affrontare questo problema.
Anche perché – e riprenderemo questo punto più avanti – gli italiani sono tornati a emigrare. Centomila nel 2014. Laureati, diplomati, operai, camerieri, artigiani. Di ogni regione italiana, anche se di più dal Sud. Torniamo a sperimentare la condizione dell’immigrato. Guardato da tanti con fastidio e con pregiudizio. Gli italiani all’estero ne sanno qualcosa.

 

Migranti e profughi: differenza

Se si osserva un atlante mondiale delle migrazioni, si vede un impressionante reticolo di frecce che copre l’intero globo. Decine di milioni di persone si spostano, per volontà o per costrizione, tra un continente e l’altro, oppure all’interno del medesimo continente (cfr. l’agile e autorevole Atlante mondiale delle migrazioni di C. Wihtol de Wenden, Vallardi, 2012) .
Secondo l’Onu i migranti nel 2013 sono stati 232 milioni e nel 2014 probabilmente almeno 240 milioni.Non un fiume, ma un mare di persone che lasciano le loro case. E sono sempre di più.
Di questi, 60 milioni sono migranti forzati, cioè profughi. Una nazione grande come l’Italia costretta a fuggire. Mai così tanti profughi dai tempi della seconda guerra mondiale.
La distinzione tra migranti e profughi (migranti forzati) è importante, anche se spesso le due tipologie di migrazione finiscono per incrociarsi e confondersi.
Noi stessi nei nostri ragionamenti finiamo poi per sovrapporre queste due tipologie (immigrati e profughi), anche se dobbiamo avere chiara la distinzione (penso ne abbiate parlato anche con gli altri relatori).
Il migrante si sposta per libera volontà dal suo paese verso un altro per migliorare le proprie condizioni di vita, per un progetto di vita.

Il profugo è colui che è costretto – dalla guerra, dalla violenza politica, dalla persecuzione religiosa o etnica, dai disastri ambientali – a lasciare la propria casa e ad andare altrove. Se resta all’interno del proprio paese lo definiamo “sfollato”, se va fuori lo definiamo “profugo”.

Questo profugo chiede la protezione internazionale, in base al diritto internazionale vigente e diventa un “richiedente asilo”. Lo status di richiedente asilo di per sé gli garantisce un minimo di accoglienza, assistenza, protezione.

Se l’asilo gli viene riconosciuto e concesso diventa un “rifugiato” con un altro standard di accoglienza e protezione. Sempre però limitato nel tempo.

 

Risvolti umani drammatici

La questione è molto delicata e complessa, e dai risvolti umani spesso drammatici.
Le persecuzioni e le violenze politiche, religiose ed etniche sono diffuse anche in paesi dell’Africa e dell’Asia la provenienza dai quali non garantisce talvolta alcuna protezione internazionale, perché apparentemente (e ipocritamente) risultano paesi dove vigono regimi costituzionali, paesi “normali”, in pace ecc.
Così come la povertà, le aspettative di vita, le opportunità di lavoro all’interno di tanti paesi dell’Africa o dell’Asia, ma anche dell’Europa (basti pensare al Kosovo, il paese più povero d’Europa, da cui fuggono a migliaia verso la Germania, e i più sono rimandati indietro), sono tali da costringere molti giovani a fuggire e a cercare altrove una vita dignitosa.

Le regole giuridiche internazionali non possono rispecchiare pienamente la reale situazione in cui tante persone e tanti popoli realmente vivono.

Dobbiamo stare attenti a liquidare semplicisticamente le questioni, tipo: se quella persona non ha il diritto di asilo sia rimandata indietro.
Certi respingimenti nei paesi di provenienza di profughi cui non è stato riconosciuto il diritto di asilo, sono un vero e proprio ributtare degli esseri umani in quel baratro di violenza e povertà che avevano cercato faticosamente di risalire.

 

I PROFUGHI

 

Chi sono e da dove provengono?

Chi sono quei 60 milioni di migranti forzati, cioè profughi, accertati dall’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu nel 2014? (cfr. Unhcr, Global Trends. Forced Displacemente in 2014; presto avremo il Rapporto 2015).
Innanzitutto, 38 milioni di loro sono sfollati interni; il resto, 22 milioni, sono richiedenti asilo e rifugiati (tra di loro, i 5,6 milioni di palestinesi). Il 51% sono minori di 18 anni.

I paesi da cui provengono sono soprattutto:

1. Siria (3,88 milioni)
2. Afghanistan (2,59)
3. Somalia (1,11)
4. Sudan (666,0 mila)
5. Sud Sudan (616,0)
6. Rep. Democratica del Congo (499,5)
7. Myanmar (479,0)
8. Rep. Centrafricana (412,0)
9. Iraq (369,0)
10. Eritrea (363,0)

Questi i primi dieci paesi per provenienza. Si potrebbero fare dei bei corsi di formazione e di aggiornamento (nelle scuole, nelle parrocchie, sui giornali, in tv ) su questa geografia del dolore e della violenza, ma anche delle miserie e dei giochi di potere della politica internazionale, andando ad analizzare ciascuno di questi dieci paesi per capirecosa vi sta succedendo e perché così tante persone sono costrette a scappare.

E ci sono anche tanti altri paesi non meno violenti e oppressivi, anche se occupano un posto inferiore in questa disgraziata classifica.
Perché ne sappiamo così poco di questi paesi? Perché vogliamo saperne poco?

E però siamo tutti lì a emettere sentenze sui profughi e i rifugiati. E non sappiamo quasi nulla di loro, e quel baratro di dolore e violenza da cui fuggono ci rimane ignoto.

Tante notizie, tante chiacchiere ogni giorno in tv e sui social, un mare di discussioni e di giudizi: e la nostra conoscenza di quella geografia del dolore e della sofferenza resta pressoché nulla.

 

Dove sono accolti? Soprattutto nei paesi poveri

L’immagine che abbiamo è di una Europa invasa o di un’America del Nord invasa.

Ma la stragrande maggioranza dei profughi (l’86%) è accolta nei paesi più poveri o “in via di sviluppo”.

Il 42% di loro è accolto in paesi dove il reddito pro capite è inferiore ai 5 dollari al giorno.

Questi i dieci paesi che accolgono più profughi (sempre dati 2014 del Rapporto Unhcr):

1. Turchia (1,59 milioni)
2. Pakistan (1,51)
3. Libano (1,15)
4. Iran (982 mila)
5. Etiopia (659)
6. Giordania (654)
7. Kenya (551)
8. Ciad (452,9)
9. Uganda (385,5)
10. Cina(301)

Tanti sono accolti in campi profughi che sono talvolta vere e proprie “città” di tende e baracche (ricordo le “città di legno” dei profughi trentini in Austria), assistiti dalle Nazioni Unite, dalla Croce Rossa, dalle organizzazioni umanitarie, dalle Chiese. Tanti sono destinati a nascere, crescere e morire in queste nuove “città”.

Come ad esempio, il campo profughi di Kakuma, nella savana del nord-ovest del Kenya, sul confine col Sud Sudan, che nel corso di più di vent’anni è diventato una vera e propria città di lamiera ondulata e teloni di plastica e strade di polvere abitata da 180.000 profughi.

Una città di bambini e vedove: centomila hanno meno di 18 anni, la maggioranza dei restanti sono donne, i mariti al fronte rimasti a combattere, più spesso caduti.

Sopravvivono grazie all’Onu, alle organizzazioni umanitarie internazionali, alle chiese, ai missionari cattolici (cfr. S. Ramazzotti, “La città di lamiera per i fuggiaschi”, in “Africa”, n. 4, 2015).
Una parte è accolta presso famiglie, in edifici pubblici e così via.

Il caso più emblematico è il piccolo Libano, grande come la Toscana, che accoglie 1 milione e 150 mila profughi. In Europa nel 2014 i richiedenti asilo sono stati 627.790 (dati Eurostat), più o meno la metà dei rifugiati in Libano.

I paesi europei con più richiedenti asilo sono stati: Germania (202.815), Svezia (81.325), Italia (64.625), Francia (64.310), Ungheria (42.775).

Per l’Italia, in particolare (ma anche per la Grecia e altri paesi di primo approdo dei profughi), dobbiamo sempre distinguere tra arrivi dei profughi e richiedenti asilo, cioè quelli che rimangono e chiedono lì la protezione internazionale.

 

Modificare l’accordo di Dublino

Nel 2014 in Italia sono arrivati via mare 170.100 profughi, ma poi la maggioranza di loro se n’è andata verso i paesi del Nord Europa e ne sono rimasti, appunto, come richiedenti asilo 64.625.
Questo aspetto della questione è al centro di un acceso dibattito in Europa.

Il regolamento di Dublino, che disciplina l’accoglienza dei profughi, stabilisce che il profugo che arriva in un determinato paese dell’Unione europea, venga identificato in quel paese e faccia lì la domanda di protezione internazionale, di asilo. Ciò significa che il profugo deve restare in quel paese di prima accoglienza.
Ma i profughi che approdano in Italia (o in Grecia) hanno spesso come mèta altri paesi e non vogliono rimanere lì (come ad esempio i siriani e gran parte gli eritrei, che costituiscono i due gruppi nazionali maggiori di profughi arrivati in Italia nel 2014: la loro mèta è la Germania o il Nord Europa). Né l’Italia (e la Grecia) intende, comprensibilmente, trattenerli.
E così i profughi hanno evitato spesso l’identificazione con le impronte digitali (né sono stati forzati dalle autorità italiane a farlo) per evitare di essere obbligati poi a rimanere in Italia. Ciò crea problemi sul fronte della sicurezza, in presenza anche della crescente minaccia del terrorismo internazionale. È evidente quindi la necessità di modificare il regolamento di Dublino. Il dibattito resta aperto.

 

I dati 2015 smascherano le false propagande

I dati 2015 attualmente a disposizione ci dicono che gli arrivi via mare in Italia sono stati 153.600, sono cioè diminuiti rispetto ai 170.100 del 2014.
Ma c’è stato un enorme incremento di arrivi in Grecia: 851.319. I profughi arrivati via mare in Europa (che comunque non rappresentano la totalità degli arrivi) risultano quindi 1.008.616 nel 2015, mentre erano 216.054 nel 2014, quando la maggior parte di loro era arrivata in Italia.
Hanno scelto la Grecia per proseguire lungo la rotta balcanica il loro viaggio verso la Germania e gli altri paesi del Nord Europa. Soprattutto la seconda metà del 2015 ha visto le fiumane di profughi risalire con ogni mezzo i Balcani e l’Est Europa in cerca della terra promessa. Incontrando infiniti ostacoli. La stragrande maggioranza di loro è accolta in Germania, il paese che più di ogni altro ha risposto all’ “emergenza” profughi.
L’Italia, come detto, ha avuto 64.625 richiedenti asilo nel 2014 su una popolazione di 60 milioni di abitanti. Al 15 dicembre 2015 sono 68.420 (dati Unhcr e Eurostat). Si può capire quanto sia del tutto fuori luogo parlare di invasione, anche alla luce di quanto sta accadendo altrove.
Abbiamo 1 profugo ogni mille abitanti; il Libano 232 ogni mille abitanti. Il Trentino sta accogliendo poco meno di un migliaio di profughi su una popolazione residente di 540 mila abitanti. I numeri possono essere aridi, ma smascherano anche le false percezioni e le propagande che le ingigantiscono.

 

Come arrivano? Odissee drammatiche

I viaggi dei profughi sono spesso delle odissee che talvolta finiscono tragicamente, e non solo a causa dei naufragi del Mediterraneo.
Tanti rifugiati africani raccontano che lungo i deserti dell’Africa per arrivare al Mediterraneo è frequente imbattersi nei poveri resti umani di tanti, tantissimi profughi. Che restano sconosciuti alle nostre cronache e pianti solo dalle loro famiglie che aspetteranno talvolta invano per anni di ricevere da loro notizie.

Non solo. Lungo questi viaggi subiscono spesso violenze di ogni tipo (specie le donne), rapine, imprigionamenti.
A volte finiscono nella rete dei trafficanti di esseri umani, dei mercanti di organi umani, dei nuovi schiavisti dello sfruttamento e della prostituzione.
Spesso sono depredati dalle guardie di confine e dalle polizie locali (un bel reportage su un di questi drammatici percorsi della speranza, “Sulla via di Agadez”, è stato pubblicato da Andrea De Giorgio su “Nigrizia”, luglio-agosto 2015).

 

Abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna

I naufragi nel Mediterraneo continuano a ritmo impressionante.
Nel 2015 sono stati 3.771 i morti e dispersi in mare, duecento in più dell’anno precedente. Una statistica che rivela una sua spaventosa “regolarità”.
Il 18 aprile dello scorso anno in un solo naufragio avvenuto tra la Libia e Lampedusa sono morti almeno 850 migranti. L’Onu ha accertato che al dicembre 2014 erano morte nel Mediterraneo 22.804 persone.
Una strage continua. Una guerra.
Risuona ancora il grido di papa Francesco l’8 luglio 2013 a Lampedusa nel corso di quel memorabile viaggio inaugurale del suo pontificato:

Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: ‘Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?’. Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna.

Perché non si aprono canali umanitari per accoglierli ed evitare ai profughi questi pericolosi viaggi in mare? Una prima iniziativa in tal senso è in via di realizzazione per un gruppo di profughi siriani accolti in Libano e che arriveranno in Italia e anche in Trentino nei prossimi giorni, tramite alcune organizzazioni religiose e umanitarie in accordo coi governi.

 

I muri della vergogna

Intanto nel mondo si costruiscono sempre nuovi “muri” ai confini per fermare profughi e migranti. I muri della vergogna. Barriere di filo spinato, alti blocchi di cemento, telecamere, militari di guardia. Secondo una inchiesta del “Corriere della Sera” online del 17 giugno 2015 (integrata il 17 settembre con una eloquente cartina geografica mondiale) i muri nel mondo sono oltre 45.
I principali sono: tra Ungheria e Serbia, tra Bulgaria e Turchia, tra Ungheria e Croazia e anche Slovenia (muri anti-migranti di recente costruzione, o in corso),tra Cisgiordania e Israele, attorno alle enclave spagnole di Ceuta e Melilla in Marocco, a Cipro tra greci e turchi, in Usa sul confine col Messico (3.200 km), in India lungo metà confine col Pakistan (1.450 km), tra la Corea del Nord e quella del Sud, in Marocco sul confine conteso col Sahara Occidentale(2.700 km), in Irlanda del Nord le vecchie barriere tra cattolici e protestanti (in parte abbattute dopo gli accordi di pace del 1998), a Rio de Janeiro in Brasile a dividere le zone ricche dalle favelas (11 km).
Crescono i profughi e i migranti. Crescono i muri. Ma se non si rimuovono le cause del fenomeno, è disumano e assurdo pensare di affrontarlo con i muri:

“Meglio affogare nell’oceano che essere strangolati dalla miseria. Meglio morire a modo nostro che essere peggio delle bestie” (Canto degli emigranti).

 

LE CAUSE

 

L’analisi delle cause, oltre che essere un passaggio inevitabile per poter affrontare seriamente un fenomeno, è importante nel nostro caso per tre motivi.

Il primo è che se non si rimuovono le cause, non si può immaginare di arginare con un crescente numero di barriere fisiche, di barriere legislative, di barriere militari un fenomeno così imponente.
Non possiamo costruire un mondo di prigioni, filo spinato, eserciti per fermare le persone, un mondo, però, dove la globalizzazione consente al mercato di far circolare liberamente le merci (con costi umani spesso altissimi); alla finanza di fare circolare liberamente il denaro (pulito e sporco) che, al di sopra di ogni confine e legge, fa e disfa governi, crea impressionanti ricchezze e provoca spaventose povertà, mettendo in crisi nazioni e continenti come dimostrala crisi finanziaria del 2007 ancora in corso; all’industria degli armamenti di far circolarequantità enormi di armi, anche queste al di sopra di ogni confine, legge, controllo. Solo per gli infelici i controlli, le regole, i fili spinati?

Il secondo motivo è che noi, noi come Occidente, come paesi europei e Nord americani, dovremmo non solo lamentare la pressione e l’arrivo di flussi di profughi e migranti, ma dovremmo anche chiederci se non abbiamo delle responsabilità nelle cause di questo fenomeno.

Il terzo motivo è che l’analisi delle cause ci fa anche capire che non è vero che noi dobbiamo soltanto accollarci un peso nell’accoglienza di profughi e migranti, ma che di loro, di immigrati, le nostre società hanno bisogno per poter sopravvivere.

Le cause dei fenomeni migratori, sia forzati (profughi) che spontanei, possono essere così riassunte:

1) Le guerre, le persecuzioni politiche, religiose, etniche, la violenza terroristica, il mercato delle armi;

2) Le povertà, le diseguaglianze economiche;

3) I disastri ambientali;

4) Gli squilibri demografici (invecchiamento della popolazione).

 

1. Guerre, terrorismo, persecuzioni, traffico di armi

 

Se prendiamo in considerazione le prime dieci nazioni da cui provengono i profughi vediamo che sono innanzitutto paesi del Vicino Oriente (Afghanistan, Iraq, Siria), poi dell’Africa sub-sahariana (Somalia, Sudan, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Eritrea), quindi il Myanmar, in Asia (l’ex Birmania).
Tutti paesi flagellati dalla guerra, da guerrigliee lotte tra fazioni interne, da regimi oppressivi. Più o meno tutti armati dalle industrie delle armi occidentali (europee, americane, russe). Più o meno tutti all’interno di aree che sono di vitale importanza da un punto di vista economico, politico e strategico per l’Occidente, oltre che (soprattutto in Africa) per la Cina.
Le guerre nel Vicino Oriente (Afghanistan, Iraq, Siria) le conosciamo bene, o almeno crediamo di conoscerle. Perché, se qualcosa abbiamo imparato in questi anni, almeno dalla prima guerra del Golfo (1990-1), è che siamo sommersi da un mare di menzogne camuffate per notizie o informazioni, magari a colpi di dirette televisive che ci danno la pia illusione di vedere da vicino come stanno davvero le cose.
Perché i giganteschi interessi intorno al petrolio e ai gasdotti si intrecciano con quelli altrettanto giganteschi del commercio delle armi, e poi con le lotte tra i paesi dell’area, tra i potentati assoluti dell’area, quindi con lo scontro interno al mondo musulmano tra i sciiti e sunniti e con i vari gruppi terroristicidell’estremismo islamico in un intrico di alleanze e conflitti con i paesi occidentali che è difficile far ragionevolmente passare per una guerra di civiltà.

 

La guerra all’Iraq

Il caso più emblematico è stato la guerra all’Iraq del 2003, madre di una destabilizzazione del Vicino Oriente che è andata crescendo. La guerra contro Saddam Hussein, cui invano si oppose con solitario coraggio Papa Giovanni Paolo II (come invano e con solitario coraggio si era opposto alla prima guerra del Golfo del ’90-91), fu giustificata da Stati Uniti e Gran Bretagna (Bush e Blair) con il fatto – falso – che SaddamHussein possedeva armi di distruzione di massa.
Blair ha ammesso recentemente (il 25 ottobre 2015 in una intervista alla Cnn) che non era vero che Saddam possedesse quelle armi. E ha chiesto scusa.
Ma quella guerra, costruita su quella menzogna che tanti già allora (ricordo, con il Papa, i movimenti pacifisti) avevano denunciato, è costata centinaia di migliaia di morti e poi ha contribuito ad alimentare altri conflitti, morti, distruzioni, profughi. Tanto possono le menzogne.
Adesso piangiamo la persecuzione e la fine di tante comunità cristiane in Iraq, il crescente conflitto tra sciiti e sunniti, l’espandersi del cosiddetto Califfato e le sue sanguinose operazioni terroristiche anche in Europa, la marea di profughi costretta ad abbandonare le proprie case.

 

La guerra all’Afghanistan

Prima c’era stata la guerra in Afghanistan(dall’ottobre 2001), tutt’ora in corso, che aveva fatto seguito all’attacco alle torri gemelle di New York.
Ma anche quella guerra aveva le sue radici nel conflitto tra potentati del petrolio, prima alleati (contro gli occupanti sovietici dell’Afghanistan nel decennio 1979-1989) e poi nemici (Osama Bin Laden, fondatore dell’organizzazione terroristica Al Qaida che ha condotto l’attentato alle Due torri, era stato alleato degli americani).
Anche di fronte a quella guerra ci fu la solitaria e dura contrarietà di papa Giovanni Paolo II, che sempre la rifiutò come guerra “di civiltà”.

 

La guerra in Siria

Poi è arrivata la guerra in Siria (2011) che ha provocato più di 4 milioni di profughi e 7 milioni di sfollati interni su una popolazione di 22 milioni di persone. I siriani hanno tolto agli afghani il primato nella funesta classifica mondiale dei profughi.
La guerra in Siria è uno scontro, che da politico (una “primavera araba”) è diventato ben presto armato, tra il dittatore Assad e gruppi di opposizione. Assad è sostenuto dalla Russia e dall’Iran. Gli Stati Uniti sostengono l’opposizione. Quest’ultima è un coacervo complesso e ambiguo di forze di varia ispirazione e variamente sostenute dai potentati petroliferi del Golfo, dalla Turchia, da paesi occidentali e orientali.
Tra questi gruppi è nato l’Isis (Islamic State of Iraq and Siria), organizzazione terroristica che ha espanso il proprio potere e controllo nell’area fino a nominarsi come nuovo Califfato. E che è ora in guerra con tutti (o quasi). La sua azione terroristica nel mondo si va espandendo e intensificando.
Ma chi l’ha fatto nascere l’Isis? Chi lo finanzia?
Le stesse monarchie assolutiste del Golfo che sono da sempre alleate dei paesi occidentali cui danno petrolio in cambio di armi e investimenti in uno scambio gigantesco di interessi che negli anni della crisi economica non ha mai conosciuto incrinature. C’è del metodo in questa follia.

 

Miseria della geopolitica del petrolio

Una illuminante e spietata sintesi (che ci è stata utile) di queste tre guerre è stata recentemente fatta su “Il Sole 24 ore” (il quotidiano della Confindustria) da Alberto Negri, grande esperto di Medio Oriente e inviato in quell’area (cfr. “Quando i petrodollari non avevano colore”, 10 dicembre 2015).

I petrodollari, il commercio delle armi, il controllo strategico dell’area stanno soprattutto alla base di queste tre guerre. Le monarchie autoritarie del Golfo, ricorda Negri, sono Stati ultraconservatori, monarchie assolutiste che spesso finanziano i gruppi terroristici:

Sono però clienti delle maggiori industrie belliche americane ed europee, azionisti delle nostre imprese e grandi investitori finanziari. Gli introiti del loro petrolio in parte tornano indietro perché sono clienti di primordine.

Alberto Negri conclude così il suo articolo:

Raschiando il fondo del barile affiora tutta la miseria della geopolitica del petrolio.

 

Il realismo profetico di papa Francesco

Alla luce di queste analisi (fatte su un giornale che se ne intende, perché di proprietà di Confindustria di cui fa parte anche Finmeccanica, la maggior industria italiana di armi), si comprende ancora di più il realismo profetico di papa Francesco (in continuità con quello di Giovanni Paolo II di fronte alle guerre in Iraq e in Afghanistan) che per fermare l’escalation della guerra in Siria (si paventava un intervento diretto degli Stati Uniti) indisse per il 7 settembre 2013 una veglia mondiale di preghiera e digiuno per la pace. All’indomani della quale, nel corso dell’Angelus dell’8 settembre, disse:

Questo comporta, tra l’altro, questa guerra contro il male comporta dire no all’odio fratricida e alle menzogne di cui si serve; dire no alla violenza in tutte le sue forme; dire no alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale. Ce n’è tanto! Ce n’è tanto! E sempre rimane il dubbio: questa guerra di là, quest’altra di là – perché dappertutto ci sono guerre – è davvero una guerra per problemi o è una guerra commerciale per vendere queste armi nel commercio illegale? Questi sono i nemici da combattere, uniti e con coerenza, non seguendo altri interessi se non quelli della pace e del bene comune.

 

Maledetti

Papa Francesco è tornato più volte sul tema fino ad arrivare all’omelia in Santa Marta del 19 novembre 2015 a maledire i mercanti di armi e gli operatori di guerra:

Cosa rimane di una guerra, di questa, che noi stiamo vivendo adesso?
Cosa rimane? Rovine, migliaia di bambini senza educazione, tanti morti innocenti: tanti!, e tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi. Una volta, Gesù ha detto: ‘Non si può servire due padroni: o Dio, o le ricchezze’. La guerra è proprio la scelta per le ricchezze: ‘Facciamo armi, così l’economia si bilancia un po’, e andiamo avanti con il nostro interesse’.

C’è una parola brutta del Signore: ‘Maledetti!’. Perché Lui ha detto: ‘Benedetti gli operatori di pace!’. Questi che operano la guerra, che fanno le guerre, sono maledetti, sono delinquenti. Una guerra si può giustificare – fra virgolette – con tante, tante ragioni.

Ma quando tutto il mondo, come è oggi, è in guerra, tutto il mondo!: è una guerra mondiale – a pezzi: qui, là, là, dappertutto … – non c’è giustificazione. E Dio piange. Gesù piange.

 

L’industria delle armi è sempre in attivo

Realismo profetico del Papa, altro che moralismo. Negli anni della crisi economica l’industria delle armi è tra le poche sempre in attivo e in crescita.

Per il Global DefenceTrade Report di IHS, l’agenzia americana di consulting specializzata nel settore delle armi, i governi hanno speso, nel 2014, 64,4 miliardi di dollari per la difesa, il 13,4% in più del 2013. La notizia, secondo questo rapporto, è che il mercato cresce da 5 anni consecutivi e alla fine del 2015 supererà i 70 miliardi di dollari

scrive Gianni Ballarini nell’inchiesta “Armi di massa” pubblicata su “Nigrizia”, aprile 2015.
Ballarin ricorda che l’import militare delle monarchie del Golfo è aumentato del 71% in cinque anni e del 54% nel Medio Oriente in generale.

In Africa è aumentato del 45% nello stesso quinquennio 2010-14. Stati Uniti, Russia, Cina, Germania, Francia sono i maggiori esportatori di armi nel mondo.

 

Anche l’Italia esporta armi in Africa e nel Vicino Oriente

L’Italia è all’ottavo posto col 3% dell’export mondiale. I maggiori importatorisono India, Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti e Pakistan. Nell’Africa subsahariana finisce il 42% di tutte le importazioni di armi in Africa.
Si veda anche il dossier a cura di Maurizio Simoncelli “Armi in alto”, (“Nigrizia”, novembre 2015) che ricorda come in Africa vi siano 13 situazioni conflittuali di varia intensità, ma anche innumerevoli situazioni di violenza armata:

Tra guerre, aree di crisi e atti di terrorismo, in Africa sono numerosi i conflitti in atto: si calcola che solo dal 1° gennaio al 19 settembre 2015 vi siano stati ben 11.423 episodi di violenza armata in tutto il continente, mentre per l’intero 2014 si è arrivati a ben 16.852.

Armi ovunque in Africa, violenza ovunque. Simoncelli in questo dossier documenta anche l’esportazione di armi italiane in Africa, soprattutto armi piccole e leggere, che furono definite “le vere armi di distruzione di massa”.
In un’altra documentata inchiesta (“Africa-Armi. Fare business” in “Il Regnoattualità” giugno 2015, n. 1206), Maurizio Simocelli ricorda:

Le spese militari nel continente africano sono andate crescendo costantemente dal 1990 a oggi. Risulta infatti che siano passate in termini reali dai 17,9 miliardi di dollari ai 42,7 del 2013.

 

Terrorismo: le prime vittime sono i profughi

Molte di queste armi finiscono nelle mani dei gruppi terroristici, in prevalenza di matrice islamica (jihadisti). I profughi che arrivano da noi sono vittime sia delle guerre sia del terrorismo, due fenomeni che, come abbiamo visto, si intrecciano.

Il terrorismo a livello mondiale, ha avuto uno sviluppo tumultuoso e inquietante. Lo fotografa dettagliatamente il Global terrorism index 2014 (…). Il 2013 ha registrato circa 10 mila attacchi terroristici, con un aumento del 44% rispetto al 2012; quasi 18 mila le vittime, che rappresentano un incremento del 61% rispetto all’anno precedente (…); 4 le organizzazioni che da sole sono responsabili del 66% di tutti questi decessi: Isis, Boko haram, al-Qaida e talibani.

(G. Ballarini, “Terrore confessionale” in “Nigrizia” gennaio 2015).

In Africa, paesi come Somalia, Rd del Congo, Sudan, Sud Sudan, Rep. Centrafricana, che sonotra i primi dieci per numero di profughi – sono tra i primi dieci anche per massimo impatto del terrorismo. E con essi Nigeria, Libia, Mali, Tanzania, Senegal da cui fuggono tanti altri profughi che arrivano in Italia.

 

Persecuzioni politiche, etniche, religiose

Nell’Africa subsahariana le guerre interne che da anni insanguinano molti di questi paesi si intrecciano con l’attività crescente del terrorismo di matrice islamica.
E spesso anche con le repressioni autoritarie e violente dei governi (basti pensare all’Eritrea, la “prigione d’Africa”, paese non in guerra ma paralizzato da una dittatura trentennale che costringe tantissimi giovani alla fuga verso l’Europa), con le persecuzioni etniche e religiose.Di quest’ultime sono vittime le comunità sia cristiane sia islamiche.
La chiesa cattolica e le altre chiese cristiane hanno molti martiri in Africa a seguito di questa lunga ondata di persecuzioni e di azioni terroristiche. Martiri che conosciamo poco e spesso dimentichiamo, come il coraggioso ed eroico cardinale di Brazzaville, EmilieBiayenda, difensore dei diritti umani che fu “rapito, bastonato a morte e sepolto ancora vivo nella notte tra il 22 e il 23 marzo del 1977” (F. Di Giacomo, “Troppi strani silenzi sui martiri cristiani della chiesa africana”, “Il venerdì”, 10 luglio 2015).

 

Cristiani e musulmani perseguitati

Non va dimenticato che se le chiese cristiane pagano un prezzo altissimo di sangue a causa di tante persecuzioni di ieri e di oggi, e a causa del terrorismo di matrice islamica, la maggior parte delle vittime sia in Medio Oriente sia in Africa del terrorismo sono di religione islamica.
E mons. Giancarlo Perego, direttore di Migrantes, organismo della Cei, ci ricorda che almeno 100.000 dei profughi arrivati nel 2014 e nei primi mesi del 2015 “provenivano da 10 di quei Paesi che vivono una persecuzione religiosa” (Uomini e donne come noi. I migranti, l’Europa, la Chiesa, La Scuola, 2015, p. 22).

 

La guerra in Libia

La guerra in Libia, che nel 2011 ha visto la caduta di Gheddafi dopo i raid aerei occidentali autorizzati dall’Onu, vede lo scontro in primo luogo tra due governi interni (sono in corso trattative per formare un governo di unitario), sostenuti ciascuno da tribù, fazioni, gruppi criminali locali che gestiscono da sempre i traffici illegali di merci e persone (ora di migranti), ma anche da paesi africani e occidentali, e poi il conflitto tra questi governi e vari gruppi insurrezionali e terroristici, tra cui l’Isis, in un coacervo complicato di alleanze e interessi in gioco molto simile a quello siriano.
La guerra in Libia ha costretto alla fuga moltissimi immigrati da paesi dell’Africa subsahariana che vi lavoravano (nel 2013 erano tra gli 1,7, e gli 1,9 milioni, cfr. M. Toaldo “Perché la Libia è la porta d’Europa”, “Il Manifesto”, 18 giugno 2015).
Molti dei profughi che arrivano da noi, in Italia e anche in Trentino, sono di questi lavoratori di diverse nazionalità africane che lavoravano in Libia. Di punto in bianco hanno perso il lavoro, hanno perso tutti i loro beni, spesso anche tutti i risparmi e sono stati cacciati via, imprigionati, e poi costretti a salire sui barconi in partenza per l’Italia.

 

Gli interessi dei Paesi ricchi devastano l’Africa

Alle gravissime responsabilità dei governi e dei gruppi sociali ed economici locali si sommano, anche in Africa come in Medio Oriente, gli interessi dei paesi occidentali (Stati Uniti, Europa), della Russia e della Cina.
L’Africa è ricchissima di risorse energetiche, minerarie, agricole. Gli interessi in gioco sono enormi e i paesi ricchi del Nord del mondo si contendono il controllo di aree strategiche. Il commercio delle armi è una spia dei giganteschi interessi in gioco.
Ma l’Africa, soprattutto subsahariana, non è tormentata solo da guerre, terrorismo e persecuzioni ma anche dalla fame e dalla povertà.

E spesso è la violenza che provoca la povertà, come nel nord-est della Nigeria, ad esempio, dove cinque anni di terrorismo del gruppo estremista islamico di Boko Haram hanno causato migliaia di morti e 5,5 milioni di sfollati e profughi, costretti ad abbandonare case e terre, e rimanere privi di mezzi di sussistenza (cfr. E. Vigna “Alla fame per Boko haram” in “Sette”, n. 40, 2 ottobre 2015).

 

2. Povertà e diseguaglianze economiche

 

Il mondo è profondamente spaccato tra una minoranza benestante o ricca e una grande maggioranza povera o alla fame. Diseguaglianze spaventose, opportunità di vita radicalmente differenti, speranze di futuro non paragonabili.

Come si può immaginare che chi ha poco se non nulla, in termini di beni necessari e di speranza, non vada a cercarli là dove ci sono?

Dovremmo scandalizzarci delle diseguaglianze, non del fatto che i diseguali vengano da noi a cercare quel po’ di speranza e di dignità che non possono avere là dove sono nati.

 

Scandalose disuguaglianze

Il Rapporto Oxfam Grandi disuguaglianze crescono (Oxford, 2015) stima che nel 2014 il 48% della ricchezza globale sia detenuto dall’1% della popolazione mondiale, con una media di 2,7 milioni di dollari a persona, un altro 46,5% da un quinto della popolazione mondiale e il residuale 5,5% dal restante 80,0% dell’umanità, con una media di 3.851 dollari pro capite (cfr. Dossier statistico immigrazione 2015, a cura di Idos in partenariato con “Confronti”, p. 21).
Una fotografia spietata di un mondo profondamente sbagliato e ingiusto.
Tuttavia questo mondo sta migliorando. Non dobbiamo fare i catastrofisti. Tutti i dati internazionali (dell’Onu, della Fao, della Banca Mondiale, dell’Unicef) lo confermano (si veda anche un servizio su “Avvenire” del 28 maggio 2015).

Stando alle serie storiche della banca mondiale, dal 1981 a oggi, la percentuale di persone che vive con meno di 1 dollaro al giorno nei paesi in via di sviluppo è diminuita. Nel 1981 era il 52%, nel 1990 il 43%, e nel 2010 è scesa al 21% (…) Negli anni 1990-2012 l’aspettativa di vita è aumentata di più di tuti nei paesi a basso reddito, di 9 anni per gli uomini e 9,1 anni per le donne.

(R. Barlaam, “Stiamo meglio” in “Nigrizia”, febbraio 2015).

 

16 mila bambini sotto i 5 anni muoiono ogni giorno

I decessi dei bambini sotto i 5 anni sono scesi da 12,7 milioni all’anno nel 1990 a 5,9 milioni nel 2015 secondo il Rapporto “Levels and trends in child mortality” che l’Unicef ha presentato con Oms, Banca Mondiale e Undesa (cfr. S. Gandolfi, “L’indice della speranza”, in “Corriere della sera”, 10 settembre 2015).
Però se è vero che la mortalità infantile si è dimezzata, ed è un grande risultato, troppi bambini muoiono ancora sotto i 5 anni: 16.00 ogni giorno, ricorda il medesimo Rapporto.
Una spaventosa strage degli innocenti ogni giorno.
Soprattutto nell’Africa subsahariana: 1 su 12. In Angola, 254 su 1.000 nati.
Anche la percentuale delle persone che soffrono la fame si è dimezzata dal 1990, passando dal 23,3 % della popolazione mondiale al 12,9%.
Oggi sono 800 milioni le persone che soffrono la fame. L’Africa ha registrato grandi progressi, ma nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale ancora, rispettivamente, il 32,2 e il 29,4% della popolazione presentano elevati tassi di denutrizione (“Fame in Africa”, in “Nigrizia”, novembre 2015).
In un contesto mondiale in miglioramento, dunque, l’Africa subsahariana resta il fanalino di coda. In Uganda, ad esempio, il 37% della popolazione non dispone di acqua potabile, gli ospedali rifiutano tanti malati perché non hanno farmaci, ci sono tantissimi orfani, la scuola presenta gravi carenze.
I giovani non trovano lavoro, vogliono andarsene. Ma questa è la situazione di tanti paesi africani.

 

Di fronte alle nostre responsabilità: cambiare strada

Occorre dunque che a livello internazionale si affronti seriamente la questione africana.
Occorre che i paesi ricchi del Nord del mondo cambino strada nelle loro politiche neocoloniali e di sfruttamento delle ricchezze del continente.
È indispensabile continuare ad aiutare con coraggio l’Africa attraverso veri progetti di cooperazione internazionale, che mirino davvero all’autosviluppo locale e non agli interessi di chi fornisce gli aiuti o a quelli dei potentati locali.
È indispensabile continuare a sostenere i missionari, le organizzazioni locali della società civile.
La questione della produzione e del commercio delle armi deve diventare la vera questione morale internazionale, come ha ricordato con insistenza papa Francesco.
Più armi vuol dire più guerre, più guerre vuol dire più morti, più poveri, più profughi.
Combattere la produzione e il mercato delle armi deve diventare un obiettivo fondamentale per tutti coloro che hanno a cuore il destino del mondo, dei poveri, dei rifugiati.

L’Occidente non può sfuggire alle sue enormi responsabilità.

 

L’Africa è il continente più giovane

Dobbiamo avere a cuore l’Africa, imparare a conoscerla di più, farla conoscere, farla amare. Anche perché l’Africa è il continente del futuro, anche del nostro futuro.
L’Africa è il continente più giovane del mondo, quello che nei prossimi decenni presenterà la crescita demografica più elevata, mentre i paesi del Nord del mondo, Europa in primo luogo, vedranno un drastico calo delle nascite (la pietra scartata dai costruttori diventerà testata d’angolo).
Ma prima di affrontare il tema degli squilibri demografici, altra causa delle migrazioni di popoli, dobbiamo almeno accennare ai disastri ambientali, che sono un altro fattore che costringe milioni di persone ad abbandonare le proprie case e le proprie terre.

 

3. I disastri ambientali

 

L’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco sulla “cura della casa comune” non è, come è noto, un testo puramente “ecologico”, ma di teologia del creato nel senso più ampio e profondo, quindi anche umano e sociale.
La cura o non cura del creato ha conseguenze pesantissime sulle persone, sulla loro vita, sulla loro sopravvivenza, sul loro futuro.
La recente Conferenza mondiale di Parigi promossa dalle Nazioni Unite ha affrontato il tema dei cambiamenti climatici e, pur tra tanti limiti, ha indicato una strada da seguire rigorosamente per poter salvare il creato. Non tutti i disastri naturali sono eventi che l’uomo soltanto subisce, ma spesso che l’uomo causa.

 

In pericolo la casa comune

Lascio ancora la parola a mons. Giancarlo Perego che al tema dei disastri ambientali ha dedicato un eloquente paragrafo del suo libro sui migranti che più sopra abbiamo citato:

Tra il 2000 e il 2012 sono stati oltre duemila i disastri naturali di grandi dimensioni, di cui il 94% in Paesi in via di sviluppo e più di 100 milioni di persone annualmente, nel periodo 200-2012, sono state colpite da disastri legati al clima: dal 2000 ad oggi almeno un miliardo di persone è stato colpito da disastri ambientali.
Se il livello di innalzamento degli oceani procederà al ritmo attuale, entro il 2100 il solo Bangladesh avrà35 milioni di rifugiati ambientali. Si aggiunga che 1 miliardo e 800 milioni di persone soffriranno di scarsità d’acqua entro il 2025, la maggior parte in Asia e in Africa. Dagli anni ’60 ad oggi, il numero delle vittime dei disastri naturali è aumentato in media del 900%, analogamente a quello degli eventi catastrofici

(G. Perego, Uomini e donne come noi, p. 18).

Inquinamenti da estrazioni di petrolio, desertificazione, inurbamento forzoso, pessima gestione del territorio, degrado sociale sono tra le cause dei disastri ambientali.
La cura della casa comune, come indicato dal Papa e dalla recente Conferenza di Parigi, diventa quindi un impegno decisivo non solo per le sorti dell’umanità in senso lato ma anche nello specifico per affrontare il tema dei profughi. E questo ci ricorda che anche in questo ambito le nostre responsabilità sono rilevanti.

 

4. Squilibri demografici

 

Stretto rapporto tra immigrazione e invecchiamento della popolazione

Come abbiamo detto all’inizio, rifugiati, cioè migranti forzati, e migranti “spontanei” sono due tipologie di migrazione differenti, che poi però finiscono per sovrapporsi e incrociarsi.
Anche i profughi, come i migranti spontanei, tendono ad andare verso paesi che a causa della bassa natalità e della crescita della popolazione anziana (squilibri demografici) e delle migliori condizioni economiche in cui sono, offrono più opportunità per ricostruirsi una vita. E a un certo punto tutti diventano semplicemente immigrati.

Da sempre c’è uno stretto rapporto tra migrazioni e squilibri demografici.
Dai paesi sovra-popolati le persone si spostano verso i paesi sotto-popolati. È stato così anche per gli europei e in particolare per gli italiani, da sempre popolazione numerosa che, soprattutto dalla seconda metà dell’800 alla prima metà del ‘900, si è spostata in massa verso nazioni europee e altri continenti (America in primo luogo).
Poi l’Italia, per limitarci al nostro paese (ma ciò vale anche per la Germania – non si dimentichi che la comunità di origine tedesche è una delle più numerose negli Stati Uniti -, vale anche per l’Irlanda,l’Austria, la Spagna…), ha visto invertirsi questo spostamento. Ma all’origine c’è sempre uno squilibrio demografico.

 

Culle vuote colmate dagli stranieri

In Italia attualmente ci sono 5.014.000 di stranieri residenti,dato al 31 dicembre 2014 (cfr. il sopra citato “Dossier statistico immigrazione 2015”, p.11).
Per capire perché sono arrivati questi stranieri nel nostro paese sono illuminanti alcuni dati che ci ricorda e interpreta uno dei massimi studiosi italiani di migrazioni, Corrado Bonifazi (cfr. “Le migrazioni italiane” in “Nuova informazione bibliografica”, n. 2, 2015, pp. 333-360):

La crescita della presenza straniera che si è registrata in Italia tra il 1991 e il 2011 ha pochi riscontri nella storia delle migrazioni internazionali, specie se si considera il quadro politico tutt’altro che favorevole alla crescita del fenomeno.
Il numero di stranieri residenti nel paese è infatti passato da 356 mila unità a 4 milioni, con un tasso di aumento medio annuo del 13,3 per cento (…)

In particolare, hanno agito in questa direzione la bassa fecondità e il tracollo della popolazione in età lavorativa nazionale (diminuita di 3,2 milioni di unità tra il 1991 e il 2011), un sistema di welfare inadeguato a gestire un invecchiamento delle dimensioni registrate in Italia (con quasi un raddoppio degli ultraottantenni passati in vent’anni da 1,9 a 3,6 milioni) e un’economia sommersa che rappresentaquasi un quinto dell’intera produzione nazionale.

 

Sempre meno nascite, sempre più italiani all’estero

Ma in Italia le nascite continuano a diminuire e gli anziani ad aumentare, e anche il numero degli stranieri che finora aveva colmato in parte i vuoti demografici degli italiani sta calando. Il trend è drammatico e da un po’ di tempo l’Italia se ne sta accorgendo. Ecco qui una sequenza di articoli tratti dai maggiori quotidiani italiani:

– “Solo 509 mila nascite in un anno, mai così poche dall’Unità d’Italia” ( di A. Arachi, “Corriere della sera” 13 febbraio 2015);
– “Italia senza figli, è il record del secolo” (di M. Smargiassi, “Repubblica” 16 giugno 2015);
– “L’Onu: più morti che nascite. Gli italiani in via di estinzione” (di P. Mastrolilli, “La Stampa”, 31 luglio 2015);
– “Il vero conto non torna. L’allarmante bilancio demografico 2015” (di G.C. Blangiardo, “Avvenire”, 5 gennaio 2016);
– “Culle vuote e cervelli in fuga. L’Italia perde 150 mila persone” (di M. N. De Luca, “Repubblica”, 16 gennaio 2015).

L’Italia ha un numero di nati, ci ricordano i demografi, che andrebbe bene per una popolazione di 40 non di 60 milioni per mantenere un equilibrio tra giovani generazioni e anziani.

Inoltre, come ci ricorda l’articolo di “Avvenire” (di Blangiardo, demografo dell’università Bicocca), nel corso del 2015 si sono registrati 68 mila morti in più rispetto al 2014. I motivi di questo aumento improvviso di decessi non sono ancora ben chiari. Fatto sta che il saldo naturale, differenza tra morti (660 mila) e nati (489 mila) è di 171 mila unità. Come ai tempi della Grande Guerra.

A tutto questo si aggiunge l’aumento degli italiani che vanno all’estero (oltre 100 mila, in continua crescita dal 2009) che sono soprattutto giovani.

 

L’Europa invecchia velocemente

La situazione italiana è la più drammatica d’Europa da questo punto di vista, anche se tutto il continente soffre di questo squilibrio:

A livello europeo, dove un quarto della popolazione ha già più di 60 anni, nel 2050 il numero dei decessi sarà superiore a quello delle nascite di 32 milioni, per cui nei prossimi anni solo l’immigrazione potrà svolgere un ruolo equilibratore nel bilancio della popolazione

(Dossier statistico immigrazione 2015, cit., p. 19).

E mentre l’Europa, ma anche la Russia, la Cina, gli Stati Uniti, il Canada, tutti i paesi più benestanti, invecchiano rapidamente (la Cina per questo ha autorizzato recentemente il secondo figlio) l’Africa raddoppierà entro il 2050 la sua popolazione, passando da 1 a 2 miliardi. I termini della questione sono attualmente questi.
Solo gli immigrati possono salvare demograficamente questa Italia e questa Europa, e questo mondo benestante, che hanno sempre più culle vuote e case di riposo piene.

 

Gli stranieri diminuiscono in Italia e in Trentino

Ma, ad onta delle chiacchiere e delle propagande sull’”invasione”, gli immigrati in Italia diminuiscono e nel 2015 si calcolano che siano stati tra i 20 e i 30 mila gli iscritti stranieri nelle anagrafi italiane (erano dieci volte di più fino a pochi anni fa).
La situazione in Trentino, dove ci sono 50.000 stranieri, rispecchia quella italiana: i nati diminuiscono continuamente, i nati figli di stranieri “salvano” solo in parte il trend demografico negativo (e sono in diminuzione), gli stranieri che arrivano diminuiscono, la popolazione anziana continua a crescere.

 

Che fare?

Di fronte a questa situazione che sta compromettendo l’esistenza stessa di una società minimamente sana ed equilibrata, occorrono azioni incisive:

1. Favorire la natalità e sostenere le famiglie, ma in maniera convinta e consistente (con forti politiche provinciali e nazionali);
2. Per quanto siano da vedere positivamente le esperienze di studio e di lavoro all’estero dei nostri giovani, non possiamo accettare passivamente una loro emorragia, come quella in corso: è una perdita troppo pesante e grave, di fronte alla quale occorrono politiche del lavoro e della ricerca straordinarie;
3. Occorrono politiche di sostegno scolastico e di forte integrazione sociale soprattutto per i figli degli immigrati (la loro “mortalità” scolastica è ancora elevata) considerandoli davvero parte importante e preziosa del futuro della nostra comunità (attualmente sono diecimila i figli di immigrati che frequentano le nostre scuole) .

 

Conclusione

 

L’analisi delle cause di un fenomeno così epocale come quello migratorio, nelle sue varie articolazioni, può davvero aiutarci, credo, non solo a capire adeguatamente il fenomeno, a guardarlo con meno paura, con più chiarezza di mente e più calore di cuore, con più consapevolezza delle nostre responsabilità e dei nostri doveri, ma a capire il mondo stesso in cui viviamo.

E a comprendere quello che potremmo e dovremmo fare per rendere questo mondo più umano per tutti.