Christophe Munzihirwa rifiutò la Mercedes di Mobutu. Storia del vescovo difensore dei deboli e martire nel Congo dei signori della guerra (da “Tracce nella nebbia”)

Christophe Munzihirwa (1926-1996)

“Mobutu, dittatore dello Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo, era solito regalare una Mercedes ai nuovi vescovi. Christophe Munzihirwa quando divenne vescovo nel 1986 la rifiutò. Chi “scuote le mani per non prendere doni di corruzione” abita presso il Signore, dice il profeta Isaia. Erano pochi i vescovi che scuotevano le mani. Munzihirwa non ebbe mai paura di dire la verità ai potenti e di difendere i deboli. (V. Passerini, da “Tracce nella nebbia. Cento storie di Testimoni”)

Christophe Munzihirwa, “Il pastore sta con il gregge in pericolo”

 

Mobutu, dittatore dello Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo, era solito regalare una Mercedes ai nuovi vescovi.

Christophe Munzihirwa quando divenne vescovo nel 1986 la rifiutò. Chi “scuote le mani per non prendere doni di corruzione” abita presso il Signore, dice il profeta Isaia. Erano pochi i vescovi che scuotevano le mani.

Munzihirwa non ebbe mai paura di dire la verità ai potenti e di difendere i deboli. E a don Valentino Savoldi, teologo e giornalista, che nell’ultima intervista gli dice che sta rischiando la vita risponde: “E a Cristo cosa è capitato? La libertà di un popolo si paga con il sangue”.

Un’immagine molto popolare del vescovo martire.

Nato nel 1926 a Lukumbo, nella diocesi di Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, nel Nord-Est del Paese, perse i genitori quand’era bambino. Ordinato prete, entrò nella Compagnia di Gesù e nel 1975 divenne gesuita.

Amava i libri, era curioso, insaziabile. “Un pellegrino alla ricerca costante di Cristo”, si definiva.

Più dei libri amava il suo popolo. E la cultura africana che cercava di fondere con l’europea. Citava spesso i proverbi della sua gente.

Viveva poveramente, anche divenuto arcivescovo di Bukavu nel marzo del ’94. Ancora don Savoldi: “Quando veniva agli incontri che tenevo presso i Saveriani di Bukavu, indossava gli abiti clericali, che poi prontamente toglieva per mettersi una di quelle due camicie che lui stesso lavava ogni giorno”.

Il Kivu, regione al confine con Burundi, Ruanda e Uganda, è ricco di oro, diamanti, coltan, foreste e acqua dolce. Ricchezze sciagurate che fanno gola ai vicini e alle potenze occidentali. Di qui guerre e guerriglie che da decenni insanguinano la regione e il Paese.

Nel luglio del ’94, dal Ruanda, dopo gli spaventosi cento giorni del genocidio dell’etnia tutsi ad opera di quella hutu, due milioni di hutu fuggono in Congo per timore delle ritorsioni dei tutsi tornati al potere. Nel territorio di Bukavu ne arrivano 400 mila. Vivono in condizioni disperate.

Munzihirwa li protegge da chi li vuole rimandare indietro verso morte sicura. “Ci sono delle cose che non si possono vedere se non con occhi che hanno pianto”, dice.

Scrive al presidente americano Carter e a quello francese Mitterand denunciando le responsabilità dei loro Paesi nella guerra.

Lancia appelli per i profughi e perché cessino le violenze sui civili da parte dei soldati di Mobutu e di quelli ugandesi e ruandesi che nel ’96 hanno invaso il Kivu.

Le autorità politiche fuggono, lui no: “Il pastore è laddove il gregge è in pericolo”.

Il 29 ottobre 1996 miliziani ruandesi fermano la sua auto. Lui scende con in mano la croce pettorale. Lo mandano in disparte, uccidono l’autista e il militare congolese che lo accompagnano. Poi lo legano a un palo e lo bastonano.

Dopo alcune ore uccidono anche lui. Aspettavano un ordine. Certo dall’alto.

 

Dal libro di Vincenzo Passerini “Tracce nella nebbia. Cento storie di Testimoni”.