“Ma la buona vicina di casa Lidi aveva donato subito la farina per il pane alla fine della festa, che cadeva quasi sempre in aprile, e le mani amate della madre con gioia visibile stavano lavorando nella madia, dando pugni e schiaffi alla pasta. Nelle grandi ciotole di legno, durante la notte, sarebbero ben lievitate per essere infornate all’alba.
La madre era già semisveglia per preparare il fuoco quando bussarono forte alla fragile porta, e si svegliarono di colpo tutti… Nel vano apparvero due gendarmi che urlavano di uscire entro cinque minuti, con un solo ricambio di abiti, lasciando valori e denari a casa.” (E. Bruck, Il pane perduto, pp. 29-30)
Edith Bruck
IL PANE PERDUTO
La Nave di Teseo, 2021, p. 126, euro 16
Edith Bruck (all’anagrafe Edith Steinschreiber) è nata nel 1931 in una poverissima famiglia ebrea che viveva in un villaggio ungherese abitato per lo più da cristiani, protestanti e cattolici. Lei sperimentò presto le discriminazioni:
“Nella viuzza del villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la salutava e chi no.”
Era l’ultima di sei figli. La madre, religiosissima, ogni giorno cercava di sfamarli. Il padre “portava le bestie altrui per venederle al mercato della città più vicina per un misero guadagno”. Non aveva per nulla il senso degli affari. Si vergognava di quella sua povertà. Nonostante le decorazioni combattendo nella Prima guerra mondiale, era stato espulso dall’esercito nel 1942 perché ebreo. Soffriva di quel tradimento dello Stato verso di lui.
Edith era la prima della classe a scuola (nel villaggio non erano applicate pienamente le leggi razziali), le piaceva soprattutto scrivere e leggere poesie. Era curiosa e ribelle.
“… era attratta dai matti, dai vecchi seduti muti in strada al primo sole e dai bavosi balbuzienti che voleva capire.”
Arrivò il momento straziante della deportazione. Improvviso, notturno, bestiale. Condotto dai fascisti ungheresi insieme ai nazisti. La madre, amatissima, stava facevdo il pane. E quel pane perduto per sempre accompagnò come un macigno inamovibile la memoria inconsolabile di Edith Bruck.
Al ghetto, poi ad Auschwitz
Prima nel ghetto, poi verso una meta ignota. Più tardi avrebbero capito cosa stava succedendo loro. Non sapevano cosa fosse Auschwitz. Edith Bruck racconta con poche parole, pesanti, asciutte, schiette, spietate:
“Sembrava l’esodo dall’Egitto senza un Mosé, senza che apparisse l’Eterno, e invece del Mar Rosso si aprirono con un rumore lacerante i vagoni per bestiame, e la mandria umana veniva spinta dentro con violenza. ‘Buon viaggio’ urlava con un sorriso beffardo un soldato ungherese scaraventando dentro un secchio per i bisogni” (p. 36).
…
“Qualcuno aveva aperto con violenza il nostro vagone, come pure gli altri, e ci siamo trovati davanti dei cani inferociti, tenuti da uomini armati che urlavano come quel Moloch nel ghetto e tra urli, spinte, selezione, Rechte, Linke! Rechte, Linke! Rechte, Linke! [Destra, sinistra!], abbai, colpi; ho perso mio padre, David, Jonas, Judit, ritrovandomi aggrappata alla carne di mia madre, nella fila di sinistra, con le donne aziane.” (p. 41)
Un soldato la salva costringendola a forza ad andare a destra, strappandola con violenza alla madre da cui non voleva staccarsi. Una delle “cinque luci” che Edith ricorda di quell’inferno. La madre, come le altre della fila di sinistra, era destinata alla morte, quasi immediatamente. Anche il padre fu subito inghiotitto dal mostro. Del fratello più giovane non si seppe più nulla. Bruciato nel forno anche lui.
Lei sopravvisse, insieme alla sorella Judit da cui non si staccò mai (sopravvissero anche il fratello maggiore, David, e le due sorelle maggiori, Mirjam e Sara, che non erano finite nel lager). Un legame fortissimo con la sorella Judit che aiutò entrambe a superare i momenti più terribili e che le salvò. Dopo aver attraversato altri inferni: Dachau, Bergen-Belsen… Aveva quattordici anni.
Le amarezze del ritorno
“Il pane perduto” ci fa entrare con verità nella vita orrenda del lager, senza sconti, con totale sincerità, anche con crudezza, ma senza eccessi, e senza mai abbandonarsi alla disperazione. Edith Bruck è sempre attenta a cogliere ogni atto o parola di umanità. Ogni piccola luce. E dimostra una voglia di sopravvivenza più forte di tutto.
Il libro ci aiuta a capire la vita di una povera famiglia ebrea dell’Europa dell’Est che si portava addosso secoli di discriminazioni da parte dei cristiani e degli Stati. Poi arrivarono le nuove discriminazioni che culminarono nello spaventoso e inimmaginabile disegno nazista di annientamento del popolo ebraico attraverso i campi di sterminio e i forni crematori.
Ma ci aiuta a capire anche il dopo lager. Il ritorno alla vita. Che si rivela inspiegabilmente amaro, carico di delusioni, di rifiuti, di solitudine, di icomprensioni, di silenzi.
Edith sperimenta queste atroci amarezze, ma lotta, lotta con tutta se stessa, non si lascia abbattere. L’ultima parte del libro racconta questa storia di seconda resistenza e di rinascita. Le peregrinazioni, i tanti lavori e lavoretti, le umiliazioni, le speranze, gli amori, i fallimenti, i ricominciamenti. Il tutto in uno spazio di pochi anni.
La rinascita in Italia e l’indistruttibile amore con Nelo Risi
Finché approda, in Italia, a Roma. Qui trova la sua seconda patria. Si adatta ai lavori più umili, non racconta a nessuno il suo tremendo passato. Comincia poi a scrivere e a pubblicare. Incontra l’uomo della sua vita, Nelo Risi, poeta e sceneggiatore (fratello del regista Dino). Un legame appassionato, indistruttibile. Fino alla fine.
Gli ultimi dieci anni della vita di Nelo Risi (che muore nel 2015) sono segnati dall’Alzheimer. Edith gli sta accanto giorno e notte, lo accudisce (aiutata dalla fedele assistente familiare Olga, ucraina), gli tiene la mano per ore e ore, gli parla, gli legge poesie. Non lo lascia mai (questo rapporto bellissimo, con tutto il suo carico di amore e di fatica, lo racconta nel libro “La rondine sul termosifone”).
Edith Bruck ha pubblicato molti libri, fatto moltissimi incontri nelle scuole, testimoniato cosa è stata la Shoah, ovunque, instancabilmente. E continua a scrivere a testimoniare.
“Il pane perduto” contiene anche, alla fine, la “Lettera a Dio”, un testo drammatico, pieno di impossibile e però anche necessaria fede nel Dio di Israele (una domanda aperta che si ostina ad attendere una risposta…), che aveva colpito papa Francesco quando era stato pubblicato la prima volta sul quotidiano “Il Messaggero” e che lo aveva spinto ad andare a trovare Edith Bruck a casa sua.
Non perdete l’incontro con i libri – forti, teneri, indimenticabili – di questa grande scrittrice e testimone.
Vincenzo Passerini
27 gennaio 2023, Giorno della memoria