Don Robero malgesini aiutava e amava il suo assassino

Don Roberto Malgesini

I preti di strada sono gli ultimi rivoluzionari rimasti.
E don Roberto Malgesini, 51 anni, ucciso martedì a Como da una persona povera e fragile che lui aiutava, era un vero rivoluzionario.

Uno che rovescia con la propria vita i valori dominanti, quelli dei forti e degli arroganti, di chi schiaccia i deboli con le parole, con le leggi, con le ordinanze. Con il culto del profitto. E con l’indifferenza.
Don Roberto, come hanno scritto le amiche e gli amici dell’Osservatorio giuridico per i migranti di Como che ben lo conoscevano, non si occupava delle persone povere e sofferenti, le amava. Stava con loro.

Le accompagnava per ogni piccola e grande necessità. Dal dottore, in ospedale, allo sportello dei migranti, all’ufficio del Comune. Le accoglieva, le proteggeva. Portava loro in strada ogni mattina presto la colazione, parlava con loro, le ascoltava.

Conosceva bene queste persone, e non solo di nome. Conosceva le loro storie, le loro speranze, i loro fallimenti.

Conosceva e amava anche il suo assassino. Un immigrato tunisino in Italia dal ’93, sposato con un’italiana, che aveva poi avuto problemi con la giustizia  per maltrattamenti familiari e che da tempo, dicono quelli che lo aiutavano, manifestava gravi disturbi mentali.

Un prete di strada ama le persone per quello che sono, non per quello che dovrebbero essere. E la strada rende dura la vita di chi ci vive.

E quando hai perso o stai per perdere tutto, puoi perdere anche la testa. E diventa sempre più difficile uscire da quel labirinto infernale. Non c’è un posto per te, vedi nemici ovunque, e tu diventi il peggior nemico di te stesso.

La vita di strada è dura. Le romanticherie sui poveri lasciamole a chi non li conosce.

La vita di strada non è un romanzo. È un calvario.

E don Roberto viveva accanto a quei crocifissi dalle vicende della vita, buoni e cattivi, miti e violenti. Buttati in strada dalla sfortuna, dalle loro debolezze, dalla perdita del lavoro, da una separazione, dalla malattia, dal carcere. Dall’indifferenza della brava gente.

E dalle leggi disumane, come i decreti cosiddetti “sicurezza”. Migliaia di persone sono state buttate in strada dai decreti sicurezza. Quale sicurezza?

Don Roberto stava con loro.

Parlava poco, era timido, schivo. Un montanaro della Valtellina. Stava con le  loro e non gli importava se c’era gente in città che non ne voleva sapere dei suoi poveri e dei suoi profughi. E che lo disprezzava. Stava con loro, li aveva scelti.

Dieci anni fa aveva chiesto di poter essere assegnato alla parrocchia di S. Rocco perché era vicino  ai fabbricati abbandonati dove vivevano i migranti che nessuno voleva. E dove  poi sorse un campo di accoglienza di rifugiati che la Svizzera rimandava indietro. Lì aveva voluto andare. Per stare con loro.

“Ero straniero e mi avete accolto”, dice il Vangelo. Ero lebbroso e mi avete abbracciato. Ero rifiutato, e mi avete accettato. Ero un povero diavolo e voi avete visto brillare in me la luce che splende in ogni essere umano. Se solo la sappiamo vedere. Don Roberto la sapeva vedere. Era un uomo di profonda fede. E di tanta preghiera, dice chi lo conosceva bene.

Sembra che la sua morte abbia unito la città.

Ma Como resta divisa nel profondo. Don Roberto era stato multato dal Comune di centrodestra perché aiutava i profughi e poveri. Un’ordinanza del Comune lo vietava.

La scorsa settimana l’assessora Angela Corengia era andata a strappare di dosso una coperta a una persona senza dimora. Don Roberto le coperte gliele portava a chi dormiva in strada. D

elle critiche, dei giudizi, delle multe non gli importava nulla. Silenzioso e buono continuava la sua rivoluzione quotidiana accanto ai rifiutati.

 

Pubblicato sul quotidiano “Trentino”, giovedì 17 settembre 2020.