Il “Cinformi” che vogliono distruggere

Le persone dovevano passare  la notte in strada per potere accedere agli sportelli della Questura prima che nascesse il Cinformi (Centro informativo per l’immigrazione). Era una situazione incivile, indegna di una città come Trento. Bisogna raccontarla questa storia nel momento in cui il potere leghista distrugge il Cinformi.
Era il giugno del 2001. Mi venne segnalato il caso (ero consigliere provinciale) di una signora tedesca, sposata a un trentino, che da cinque giorni tentava invano di accedere agli sportelli della questura per poter avere dei documenti come cittadina straniera.

Il problema delle “code della vergogna”, come venivano chiamate, davanti agli uffici della questura in via san Marco era noto. Anch’io, come altri consiglieri, come la stampa, lo avevo sollevato. Ci veniva risposto che si stava cercando una soluzione (da cinque anni…).

Le persone facevano per ore la fila in strada, sul marciapiede, al freddo, sotto la pioggia. Non c’era la sala d’attesa.

Gli sportelli della questura in via San Marco era due, distanti un centinaio di metri, uno per presentare le domande, l’altro per ritirare i documenti. Aprivano alle otto e mezza e accoglievano ciascuno solo una trentina di richieste al giorno. Non c’era un sistema di prenotazione.

Ogni giorno tentavano di accedere a ciascun sportello 60, 80, anche 100 persone. Le altre, in fila, dovevano riprovare il giorno dopo. E poi magari un altro giorno, e un altro giorno ancora…

Il caso della signora tedesca mi spinse a “buttarmi” in quella situazione (il politico se sta in ufficio non può conoscere i problemi). Decisi di andare davanti agli sportelli della questura alle 6 di mattina per vedere cosa succedeva. Era il 3 luglio. Mandai poi il resoconto di quello che avevo visto e sentito a questo giornale, che allora si chiamava “Alto Adige”, che lo pubblicò come editoriale sotto il titolo “Io, nella fila della vergogna”.

Parlai con le decine di persone in fila: c’erano inferociti artigiani, agricoltori, allevatori, albergatori trentini (dalla Valsugana alle Giudicarie) che avevano bisogno dei documenti per i loro lavoratori stranieri ed era tutta la notte che facevano la fila.

C’era la badante moldava che veniva dal Primiero e non sapeva se ce l’avrebbe fatta , e piangeva silenziosamente.

C’erano lavoratori rumeni, tunisini, polacchi, croati. C’era lo studente universitario, c’erano donne con i loro bambini.

C’era una signora di Molveno. Era in fila dalla mezzanotte, aveva riposato in macchina. Era al 22° posto della lista, aveva speranza di farcela. Ma un signore trentino, che era lì dalle 5, mi raccontò che il mese prima si era messo in fila alle 19 della sera precedente per chiedere i documenti per una signora rumena che assisteva sua madre. Tutta la notte sul marciapiede, tredici ore e mezzo…

Era così. Se arrivavi dopo la mezzanotte rischiavi di non entrare nei primi trenta e dovevi tornare il giorno dopo. Il primo che arrivava (di solito tra le 18 e le 19) prendeva un foglio di carta e vi scriveva il suo nome e cognome col numero 1 davanti. Poi gli altri che arrivavano si aggiungevano. La lista veniva attaccata alla porta della Questura.

Bisognava stare lì per evitare che qualcuno, arrivato dopo, strappasse la lista e la sostituisse con un’altra. Alle 4 di mattina passava la polizia e timbrava la lista, l’unica valida che veniva presentata allo sportello quando apriva.

Quelle file erano disumane, non solo vergognose.

Decisi che sarei andato lì tutte le mattine alle 6 davanti agli sportelli, avrei parlato con le persone in fila e avrei raccontato ai giornali e alle televisioni cosa succedeva. Avrei continuato, dissi pubblicamente, finché la questura non avesse introdotto un sistema di prenotazioni e la si finisse con quelle file disumane.

Lanciai la campagna “Anch’io in fila alle sei” insieme a un gruppetto di amici e sostenitori.

Invitammo a venire lì alle 6 cittadini e personalità perché si rendessero conto di persona della situazione e parlassero con le persone in fila.

Vennero in tanti. Dal vescovo Bressan al presidente Dellai (che capì che la Provincia doveva intervenire se si voleva risolvere il problema), e poi i rappresentanti delle categorie economiche, dei sindacati, degli ordini professionali.

Ogni giorno mandavo il rapporto ai giornali e alle televisioni che vi davano spazio. Era una battaglia di civiltà.

Tutti si resero conto che quelle file disumane dovevano finire un volta per sempre. Che il Trentino doveva dotarsi di un servizio civile e moderno in questo ambito.

La nostra battaglia nonviolenta durò fino al 13 agosto, quando potemmo dire che il problema era stato risolto. Il questore aveva capito che doveva cambiare. La Provincia si mise a disposizione per aiutare la questura.

Fu introdotto un sistema di prenotazione presso i Comprensori. Piano piano, ai primi di agosto, cominciò a funzionare. Le file della vergogna sparirono.

Poi la Provincia, in collaborazione con la questura e con Atas, centralizzò il sistema per renderlo più funzionale e istituì a Trento Cinformi, il Centro informativo per l’immigrazione. Il suo compito era quello di aiutare i cittadini stranieri e trentini a preparare la documentazione che sarebbe poi stata inoltrata alla questura. Un servizio che divenne efficiente.

Poi su Cinformi nel corso degli anni furono caricate altre incombenze, perché la nostra Provincia  non ha un servizio o un ufficio immigrazione. Ce l’ha per l’emigrazione. Cinformi divenne un vero e proprio servizio provinciale in grado di affrontare problemi come quello dei rifugiati e degli immigrati. Un compito assolto dignitosamente.

A questo punto si può capire perché distruggere Cinformi, come intende fare il governo provinciale leghista, sia un atto semplicemente irresponsabile.

 

Pubblicato sul quotidiano “Trentino” il 21 novembre 2019

 

Vedi anche il libro Anch’io in fla alle sei. Con gli immigrati davanti alla questura