L’inquietudine che il Natale ci regala

Siamo sommersi dalla violenza. Ma dalla violenza orgogliosa di se stessa: delle persone normali che odiano e uccidono (e se ne vantano), dei politici che schiacciano i più deboli (e se ne vantano), del sistema economico che umilia la dignità del lavoro (e se ne vanta). Non ci si vergogna ma ci si vanta della violenza che si esercita sugli altri, specialmente sui più deboli. Mai come adesso abbiamo fame di speranza.

Abbiamo un bisogno, tremendo come un morso interiore, di sperare che la prepotenza e la violenza non abbiano l’ultima parola. Che l’umanità non è per forza consegnata al successo del male.
Se non fossimo soffocati dal frastuono dei mercatini, la sentiremmo quella parola di speranza, chiara e potente che disperatamente andiamo cercando e che il tempo di Natale ci ripropone, con la perseveranza che non teme le delusioni e i fallimenti.

Con immagini umili e poetiche, ma con una forza sconvolgente che da duemila anni fa tremare il mondo e le sue regole vincenti. Vincenti perché violente, arroganti, avide. Perché piene di buon senso, promettenti sicurezza.

Il messaggio di Cristo è invece inquietudine, non calma. È sovvertimento, non accettazione. È critica radicale del presente e dei suoi idoli, arroganti e violenti, non rassegnazione.

Come diceva Kierkegaard, il grande filosofo danese,

il cristianesimo è l’inquietudine, la massima, la più grande possibile, di cui non si può pensare una maggiore: essa vuole (in questo senso precisamente operava anche la vita di Cristo), inquietare l’esistenza umana fino al suo ultimo fondo, spezzare tutto, mandare tutto all’aria.

E allora il cristiano

non obbedisce in nessun modo a quella miseria di prendere il mondo così com’è, ma si attiene a ciò che il cristianesimo vuole che il mondo sia.

Nel Nuovo Testamento, nella parola e nella vita di Cristo

c’è l’istruzione per come deve essere il mondo.

Ecco il messaggio del Natale: una critica radicale del mondo così com’è, e l’indicazione di come deve essere.

E il rifiuto radicale della violenza, che è dentro di noi e fuori di noi, è un caposaldo del mondo come deve essere.

E così il primato dei deboli sui forti, della giustizia sull’ingiustizia, della verità sulla menzogna, della fraternità sull’esclusione, dell’eguaglianza sulla disuguaglianza.
Nessun successo è promesso a questo scontro permanente con il mondo che c’è. Anzi, spesso sono batoste. Ma la possibilità che il mondo cambi non muore mai, ed è questa la speranza. Che per i cristiani è talmente forte, è talmente inaudita, che arriva ad essere una speranza nella sconfitta perfino della morte, inaugurata con la resurrezione di Cristo.
Questa speranza non allontana dal mondo, ma lo fa amare ancora di più. Vuole che il mondo sia migliore, sia più umano per tutti.

E questa speranza è testimoniata nella vita di ogni giorno da tante persone, cristiane o atee, o di altre religioni, perché questa inquietudine permanente che Cristo ha portato nel mondo è diventata patrimonio di tanti che non si riconoscono nel cristianesimo, e questa è la vera universalità del Natale.
Speranza e responsabilità vanno insieme: sperare in un mondo diverso vuol dire agire in quella direzione. La speranza non è attesa, ma movimento.

È azione, non passività.

È responsabilità personale.

La speranza richiede una responsabilità che non si piega davanti agli insuccessi, ai fallimenti. Esige intransigenza, qualunque cosa succeda.
A suo tempo, molti anni fa, una piccola associazione che si era data il nome di Rosa Bianca, prendendolo da un gruppo di giovani antinazisti tedeschi che morirono per i loro ideali, si era data una specie di “decalogo” per orientare la propria azione.

E questo elenco di impegni, ispirato alla speranza e alla responsabilità, era sigillato dalle “regole dell’intransigenza” di una grande profeta e resistente del Novecento italiano, don Primo Mazzolari.
Regole sempre valide:

La prima regola dell’intransigenza è di non pretendere di far fare agli altri il lavoro che dobbiamo fare noi, unicamente noi. Secondo, non avere paura delle grane, ma considerare il rischio, la pericolosità, come l’aria di tutti i giorni. Terzo, non contare sul numero della gente che affolla le chiese, le balaustre, i congressi, le associazioni.

Pubblicato sul quotidiano “Trentino” il 28 novembre 2019.