L’università della vita – Giuseppe Dossetti e Giuseppe Lazzati intervistati da Pietro Scoppola e Leopoldo Elia. Un libro pubblicato dal Mulino (2004)

La formazione spirituale e politica, il riferimento a Maritain, la partecipazione alla Resistenza, i rapporti con De Gasperi e la Democrazia Cristiana, la Costituente e la Costituzione, i Patti Lateranensi e la loro tutela nella Costituzione con l’art. 7, l’adesione dell’Italia al Patton Atlantico, l’addio alla politica, l’attualità ecclesiale sono questi i temi principali di una lunga intervista che due personalità d’eccezione, lo storico Pietro Scoppola e il costituzionalista Leopoldo Elia, fecero a Giuseppe Dossetti e a Giuseppe Lazzati il 19 novembre del 1984 e che è stata integralmente pubblicata lo scorso anno dalle edizioni Il Mulino di Bologna: A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola (19 novembre I984). Un’intervista cui avrebbe dovuto seguirne una seconda, dedicata più agli aspetti religiosi, che però, per vari motivi, non ebbe più luogo.

Perché solo adesso la pubblicazione? Lo spiegano i due autori.

C’era un patto di riservatezza con Dossetti e Lazzati: la registrazione sarebbe semmai servita a loro. In realtà, poi, una trascrizione parziale di quel colloquio era pervenuta all’archivio dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna e parti della trascrizione erano state pubblicate in alcuni studi, per cui si rendeva opportuno pubblicare integralmente e accuratamente la registrazione del colloquio.

Va subito detto che il lettore di oggi non troverà clamorose rivelazioni leggendo l’intervista. Gli anni successivi a quella lontana conversazione avrebbero consentito a Dossetti, soprattutto (Lazzati moriva nel 1986), di esprimersi e intervenire su alcune questioni, anche di bruciante attualità, più esplicitamente e più pesantemente di quanto non fece allora nel colloquio con i due studiosi.

Ma l’intervista resta di enorme interesse e i due saggi di Scoppola ed Elia, che concludono il libro, aiutano efficacemente a leggerla alla luce dell’intero percorso di Dossetti e Lazzati.

 

Ritrosia di Lazzati

In particolare di Dossetti, anche perché Lazzati parla poco nel corso dell’intervista, si tiene in disparte, risponde parzialmente anche alle sollecitazioni dello stesso Dossetti ad intervenire.

Una ritrosia, quella di Lazzati, dettata dal suo carattere, non c’è dubbio, e dal prevalere in quel contesto del tema politico, essendo quello religioso-ecclesiale, a lui più congeniale, destinato ad una intervista successiva, tranne che per alcuni passaggi.

Ma anche dal fatto, è da supporre, che avendo lui pubblicato da pochissimo (settembre 1984) il volumetto La città dell’uomo. Costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura a d’uomo, destinato ben, presto a suscitare un importante dibattito, le cose che più gli premevano le aveva già dette lì, mentre Dossetti, che da molti anni viveva lontano dalla scena pubblica, poteva dire ai due illustri intervistatori cose nuove.

In ogni caso, nei suoi pochi interventi, Lazzati ribadisce quel suo giudizio severo e amaro sia sul degrado della politica italiana, in particolare della Democrazia Cristiana, sia su taluni orientamenti della Chiesa che lo avevano spinto a pubblicare La città dell’uomo, un manifesto per il rinnovamento del cattolicesimo italiano, che sarebbe rimasto uno dei più profetici e inascoltati appelli degli anni che precedettero la fine della DC e del vecchio sistema politico italiano.

 

22 febbraio 1986, Bologna, un momento della cerimonia di conferimento dell’Archiginnasio d’oro a Giuseppe Dossetti. Da sinistra: Dossetti, il sindaco di Bologna Renzo Imbeni, Giuseppe Lazzati. (Archivio della Piccola Famiglia dell’Annunziata)

 

Disarmante

La formazione spirituale e politica è uno dei temi più interessanti dell’intervista. Dossetti è davvero disarmante e illuminante.

Fu importante la formazione universitaria a Bologna? Sì, ma solo qualche incontro, qualche corso. Niente di straordinario.

Jemolo? Ha influito poco, si è trasferito presto, ma ebbe il merito di appassionarlo al diritto ecclesiastico.

L’Università Cattolica di Milano? Qualcosa, ma lui, Dossetti, fu sempre visto come estraneo e con Gemelli c’era più che altro un rapporto spirituale, troncato nel ’38.

I famosi incontri dei professorini in casa Padovani? Importanti, sì, ma meno di quanto dice la “leggenda”; comunque fu lui a sollecitare Fanfani a promuoverli.

L’Azione Cattolica? Sì, in parte, e solo tardi, all’università. Fino ad allora la sua maestra fondamentale in fatto di religione fu sua madre che si era messa a studiare per seguire la sua formazione.

 

I poveri sono stati la mia università

L’Azione Cattolica, più che per l’azione culturale (Dossetti dice di non aver mai partecipato ad un convegno dell’Azione Cattolica), fu invece decisiva per avergli fatto incontrare l’assistente diocesano don Torregiani che, a Reggio Emilia, andava dagli zingari, dai carcerati, dai poveri e organizzava incontri con i più dimenticati. “Questa è stata la mia università”, dice Dossetti.

Il giovane professore andava a Milano durante la settimana, ma il sabato e la domenica tornava la Reggio “attorno al popolo di don Torregiani”.

La scoperta del concreto mondo dei poveri (tema su cui insiste in altri luoghi dell’intervista) è quella che più forma l’orientamento sociale del giovane Dossetti che sarà poi decisivo nella sua azione politica.

Così come la formazione religiosa in famiglia fu quella più importante.

Come pure alcune letture, incontrate tramite amici e maestri, in qualche biblioteca, furono più decisive in lui della formazione universitaria. In particolare la lettura personale di Maritain e Rosmini, il Rosmini filosofo e quello delle Cinque piaghe più che quello politico, attraverso i quali matura in lui, senza nulla di sistematico, la necessità della distinzione tra la due società, quella politica e quella religiosa, anche se più tardi il suo giudizio su Maritain diventerà più critico e si apriranno per lui nuove riflessioni su cosa significhi davvero i1 “dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che é di Dio” (rimandate a quel prosieguo dell’intervista che non ebbe più luogo).

 

“Scoprii (dopo) le responsabilità dei cattolici

e del papa nell’avvento del fascismo”

E poi, dal punto di vista della conoscenza della situazione italiana (“non sapevamo nulla”, insiste Dossetti), fu importante la lettura delle annate della Civiltà Cattolica dal 1918 al 1923, pur scoperte molto tardi, e rimeditate negli anni della Resistenza. Quella lettura “fu per me una rivelazione”, dice Dossetti.

“Scoprii la responsabilità dei cattolici nell’avvento del fascismo, soprattutto negli articoli scritti durante l’affare Matteotti. Ricostruii per conto mio quello che era effettivarnente accaduto e che poi vidi confermato anni dopo, quando ero già in politica, da libri scritti ad hoc sul momento cruciale dell’avvento del fascismo: la responsabilità dei cattolici, la responsabilità specifica della “Civilta Cattolica”, la responsabilità quindi anche del papa».

 

 

Dossetti non nasce “dal” mondo cattolico organizzato

Questa rivendicazione insistita della sua formazione quasi “anarchica”, fuori dalle strutture organizzate, fuori dai progetti strutturati, fuori dalle scuole – almeno nei suoi aspetti più decisivi, quelli che orientarono le scelte fondamentali della sua vita – rivela, ancora una volta e più che mai, alcuni caratteri fondamentali della vicenda e della testimonianza di‘ Dossetti.

In primo luogo, lui non era un prodotto del mondo cattolico strutturato, ecclesiale e politico, e ci tiene a farlo intendere.

Quel mondo era arretrato, impreparato, ed era stato anche complice della tragica avventura fascista o, nelle sue migliori espressioni, era vecchio, pre-fascista: non poteva, in ogni caso, produrre grandi esigenze innovative.

Solo un combinato di incontri rivelatori al di fuori delle strutture organizzate, con persone, libri, situazioni concrete, e di intuizioni personali avevano permesso al giovane Dossetti (lui fu sempre “giovane”: aveva 33 anni quando scriveva la Costituzione coi protagonisti della politica italiana, e ne aveva 38 quando lasciò la politica) di maturare la convinzione della necessità, meglio della urgenza di una profonda riforma politica e religiosa per il nostro Paese e per la Chiesa intera. Una profonda riforma religiosa e politica, non un ritorno alla situazione prefascista, non semplicemente degli aggiustamenti, non una mera conquista del potere in funzione puramente anticomunista.

E la risposta personale, in qualche modo definitiva, di Dossetti quale riformatore religioso sarà poi quella di creare qualcosa di nuovo, pur nella più piena comunità ecclesiale, non di inserirsi in qualcosa che già c’era.

 

“Temo tutto ciò che si presenta come scuola”

In secondo luogo, è forse utile ricordare quanto Dossetti disse al nostro gruppo della Rosa Bianca e del Margine quando lo incontrammo due volte a Bologna in quegli anni (il 31 dicembre 1985 e il primo gennaio 1987: i resoconti di quegli incontri sono stati pubblicati sui numeri 1/1986 e 1/1987 del Margine):

“Io temo molto tutto ciò che si presenta oggi come scuola, in ogni ambito”, riferendosi alla formazione teologica, spirituale, politica; “io temo gli specialisti”, riferendosi alla politica e alla pastorale; “non ho simpatia per le università teologiche, così come non ho simpatia per le università laiche”, “non credo alle scuole di catechismo”.

“Credo invece che ci possano essere delle vere comunità che non si propongono titoli accademici, fini di diplomi, di diplomi timbrati che né fanno i dottori in teologia né fanno gli economisti veri, i politici veri  delle comunità educative in cui i problemi vengano affrontati su basi che non le contaminino con obiettivi immediati di carattere egoistico. Mi riferisco in particolare a tutto quello che attiene alla formazione della carriera dove si distruggono, secondo me, le possibilità ultime di quegli abiti virtuosi che bisogna incominciare ad assumere qui per poterli poi trasferire nell’agire comune, civile e politico. Può essere utopico, ma non lo credo”.

 

Una formazione sapienziale fuori dell’accademia

In quell’occasione Dossetti batté molto anche sulla centralità della famiglia per la prima fondamentale formazione alla fede, “nemmeno sostituibile dalla Chiesa e credo che la Chiesa faccia male ogni volta che supplisce troppo alla famiglia”.

Dossetti può dire questo, come abbiamo visto, per esperienza personale più che per un’elaborazione teorica. E la formazione sapienziale, quindi, quella veramente decisiva per il cristiano, quella che unisce la conoscenza teorica (si tratti dei primi fondamenti della fede, o dell’esegesi biblica, o della conoscenza dei sistemi politici ed economici) con l’esperienza della realtà, la realtà degli uomini e della storia concreta. Questa esigenza di una formazione sapienziale, sulla quale Dossetti tornerà a fondo negli anni successivi, era radicata quindi nella sua stessa, personale formazione.

Tutto questo dice molto a proposito di cosa il “professorino” intendesse quando parlava di formazione e su come fosse stata fraintesa, e lo sia ancora, la sua dimensione intellettuale come riformatore politico ma anche come riformatore religioso.

La sua formazione fondamentale è alla radice non accademica, nasce fuori dalle grandi istituzioni, nella liberta creativa, nella vita quotidiana della famiglia e negli incontri con le persone e con i libri, ed è profondamente radicata nella realtà più scottante, quella dei poveri e quella della Resistenza.

Da questa “universi della vita”, da questa singolare scuola sapienziale per niente intellettualistica nascono le sue fortissime istanze riformatrici. Non da un bel castello di idee costruito in laboratorio.

 

Dossetti e De Gasperi

Qui si inserisce anche il tema dei rapporti di Dossetti con De Gasperi, visto sempre come un rapporto tra l’ “idealista” e il “realista”.

Ai “degasperiani” Scoppola ed Elia che gli fanno osservare che le condizioni dell’Italia di allora, la situazione del mondo cattolico e del Vaticano sempre tentati dalla destra e il contesto internazionale rendevano la politica moderata di De Gasperi l’unica possibile, Dossetti ribadisce, anche con una certa durezza, che no, non è vero.

Ribadisce che De Gasperi e la maggioranza della Democrazia Cristiana avevano rinunciato alla funzione di formazione politica dei cittadini, soprattutto dei cattolici, che era indispensabile in quell’Italia uscita dal fascismo e paurosamente arretrata (Dossetti ricorda, per contro, esperienze personali quale vice-segretario della DC in cui, quando si “educava” parlando di alcuni temi girando le sezioni di partito, i risultati non mancavano).

 

Dossetti a fianco di Alcide De Gasperi in un comizio a Modena nel 1950 (Archivio della Piccola Famiglia dell’Annunziata)

 

Durezza sulla politica economica

Dossetti rincara la dose affermando che De Gasperi paventava più del necessario il pericolo della destra cattolica, ma anche ingigantiva il potere della Confindustria per avere dei buoni alibi per frenare la sinistra interna. E quando Scoppola gli fa notare che la cultura economica di allora non dava spazio ad alternative al liberismo ribatte con durezza:

“Cosa conta questo di fronte a decisioni concrete come per esempio quelle che io ho sempre rimproverato a Pella? Insomma questo è un discorso politico. Io non l’ho mai voluto fare. Ho bruciato tutte le mie carte per questo. Se lei vuole dedicare un incontro specifico a questo tema io lo posso fare, ma per me non ha nessuna importanza”.

Ricordo, a questo proposito, che proprio sulla politica economica degasperiana, in particolare su quella del ministro Pella (capofila dei liberisti ed esponente della destra democristiana), Dossetti fu molto duro anche negli incontri sopraccitati che ebbe con noi della Rosa Bianca .

 

Andreotti fin da allora contro Moro

Pella, ma anche Andreotti. Il sodalizio De Gasperi-Andreotti non piaceva a Dossetti che dice a Scoppola ed Elia: “Andreotti serviva a De Gaspari e De Gasperi se ne serviva”.

E fu proprio Andreotti ad opporsi con tutte le forze, ricorda Dossetti, all’ingresso di Aldo Moro nel governo del ’48 come sottosegretario agli esteri, cosa fermamente voluta e ottenuta dallo stesso Dossetti anche se, aggiunge l’ex-leader della sinistra democristiana, a Moro fu dato poco potere, nei fatti, fu, “umiliato in tutte le maniere fin dal principio”.

Interviene anche Lazzati ricordando di aver trovato tra le sue carte del ’46 una lettera (il nome dell’autore non si riesce a comprendere dalla registrazione), che li ammoniva: “guardatevi da Andreotti”.

 

In De Gasperi una moralità nella vita pubblica

Ma il giudizio su De Gasperi, assai critico su alcuni aspetti, diventa diverso su altri.

Scoppola dice a Dossetti riguardo al suo abbandono della politica: “Voi lasciavate un De Gasperi che non rappresentava le vostre aspirazioni e le vostre speranze, ma era pur sempre, rispetto al mondo cattolico, una realtà assai dignitosa, assai decorosa, aveva una moralità nella vita pubblica…».

“Questo é incontestabile”, afferma Dossetti.

Dopo De Gasperi, incalza Scoppola, “l’equilibrio che si è realizzato è stato di gran lunga al di sotto dell’equilibrio che voi avevate allora rifiutato”.

“Questo é vero”, dice Dossetti, aggiungendo: “Anzi, dovrei dire che è tanto più vero perché una vaga intuizione che anche lui sarebbe stato facilmente sommerso senza di noi, io l’avevo. Io sono uscito nel ’52 e lui nel ’53 è stato demolito”.

Ed EIia: “Questo avrebbe consigliato di aspettare, di aver pazienza”. E Dossetti: “di avere un po’ di pazienza, ma la certezza era un’altra: di dover rispondere ad una certa chiamata, che non era ancora il sacerdozio in quel momento”.

 

Lazzati: la situazione politica è degradata

Anche Lazzati giudica più positivamente la stagione degasperiana se confrontata con il presente (il suo presente è il 1984…):

“La condizione politica è degradata, dal momento in cui ci siamo ritirati ad oggi, in una misura tale che non è commensurabile, almeno a mio modo di vedere, a quella di allora. Poi ci fu, secondo me…  il tentativo di Moro di portare avanti una certa linea, gradualmente. Morto Moro nel modo in cui è morto, e non per niente è morto lui, oggi non c’è più nulla”.

 

Bisognava negoziare sul Patto atlantico una certa autonomia

L’episodio della presenza di Moro come sottosegretario agli esteri, fermamente voluta da Dossetti, è dentro quei passaggi dell’intervista dedicati alla questione dell’adesione italiana al Patto atlantico su cui i dossettiani furono assai critici.

I dossettiani avevano un occhio di riguardo alla politica internazionale e questo è un altro tratto della loro originalità e della loro forza di “piccolo gruppo”.

A Scoppola che obietta come una neutralità dell’Italia, “provincia di un impero”, fosse impossibile stante il quadro internazionale e il fatto che i comunisti “erano schierati per l’altra parte”, Dossetti risponde che era loro intento ritardare l’adesione italiana e fare in modo che si realizzasse diversamente. Dice Dossetti:

“Cioè ci pareva – questo poi si lega ad altri giudizi circa una costante della politica estera italiana – che questo nostro schieramento potesse essere negoziato ed avvenire in un modo che ci consentisse di conservare una certa autonomia di politica specialmente nel Mediterraneo. Ma questo riguarda poi tutta la storia della nostra politica estera dal Patto di Londra in poi, o anche da prima. Il popolo italiano si disinteressa abitualmente di politica estera. Le classi dirigenti si disinteressano e non sono per nulla informate sulla politica estera. I nostri colleghi parlamentari non sapevano assolutamente niente di quello che avveniva al di fuori dell’Italia o addirittura al di fuori di Roma. Quindi questa è una responsabilità gravissima ed estremamente nociva per il Paese”.

 

Punti fermi, potenzialità e limiti della Costituzione

Il Dossetti del 1984, per quanto riguarda il dibattito sulla Costituzione, è inevitabilmente molto diverso da quello del 1994, quando scese pesantemente in campo a guidare un movimento civile di resistenza di fronte agli stravolgimenti del testo annunciati dal governo di centrodestra.

Anche allora, negli anni Ottanta, va ricordato, il tema delle riforme istituzionali era al centro del dibattito politico, ma in una maniera del tutto diversa, e comunque dentro una comune accettazione sostanziale del patto costituzionale che non ne metteva in discussione i caratteri fondamentali.

È un Dossetti, quello che parla con Elia e Scoppola, che tende più a sottolineare la non attuazione della Costituzione, il suo potenziale riformatore “delle strutture” del Paese rimasto sulla carta, e le debolezze della parte seconda soprattutto sul fronte dell’efficacia dell’azione di governo.

L’ultimo Dossetti, come ricorda nel suo saggio Leopoldo Elia, vedrà diversamente la Costituzione, e pur sottolineandone ancora taluni limiti che esigevano dei correttivi, la difenderà come “un patto capace di portare a unità effettiva il nostro popolo e di aprirsi a sviluppi adeguati ai nuovi tempi”.

 

Lo svuotamento del Concilio

Infine, qualche cenno ai passaggi religiosi ed ecclesiali dell’intervista che, come abbiamo già detto, avrebbe dovuto avere un seguito dedicato proprio ad approfondire questi aspetti.

Dossetti e Lazzati sono molto preoccupati dello “svuotamento” in atto del Concilio Vaticano II.

“C’è un prosieguo formale che è un’infedeltà gravissima di ordine sostanziale a tutti i livelli”, dice Dossetti che aggiunge: “Al Concilio si sta sostituendo una pleiade di documenti che non sono nemmeno letti dai vescovi, tanto meno dagli altri”.

E Lazzati: “Per quel poco che provo a studiare e a rendermi conto il problema è il laicato. Io dico ai vescovi: ‘scusate, avete scritto un documento così e poi fate il contrario… come è possibile?’”.

Sia il monaco sia l’ex-rettore della Cattolica sono molto critici nei confronti di Comunione e Liberazione e dell’Opus Dei (i cui meccanismi segreti interni, dice Dossetti, non la distinguono dalla massoneria), movimenti che tendono però ad avere sempre più potere grazie anche all’appoggio del papa.

Ma al di là delle polemiche contingenti, abbondanti in quel periodo e che sarebbero sfociate in seguito in vere e proprie aggressioni “morali” nei confronti di Lazzati, ormai defunto, da parte di CL (e che provocarono un intervento della Rosa Bianca presso il tribunale ecclesiastico di Milano perché fosse tutelata la memoria del credente e maestro Lazzati), quello che più interessa agli intervistati, è la questione di fondo. Come ricorda Dossetti: “Il fenomeno di Comunione e Liberazione io lo inquadro in un problema più grande che riguarda tutta la Chiesa e che investe proprio le fondamenta della visione ecclesiale”.

 

Sono urgenti azioni popolari di formazione

Il libro si chiude intorno a queste riflessioni, con Dossetti che rimarca 1’urgenza di azioni “popolari” di formazione dei cattolici, mentre Lazzati ha già annunciato che “qualcosa di concreto” lui farà (darà vita, infatti, all’associazione “Città dell’uomo” con lo scopo di educare i cristiani a “pensare politicamente”).

Quanto tempo sia passato da allora, da quel lontanissimo 1984, ognuno lo può vedere. Sia sul fronte politico sia su quello ecclesiale. E può ben vedere se le cose siano migliorate o no, e se le riflessioni, le intuizioni, le indicazioni, le rabbie di Giuseppe Lazzati e Giuseppe Dossetti fossero nel giusto.

Di certo c’è che oggi tante di quelle loro preoccupazioni, così sofferte, spesso tormentate, per il futuro della Chiesa e del Paese risultano inattuali.

Vorremmo dire, se non suonasse dispregiativo, quasi patetiche, alla luce di quanto è accaduto e della capacità di accettazione, di digestione, di assorbimento di tutto mostrata tanto dalla Chiesa quanto dal Paese in questi anni. Dalle istituzioni e dalle persone. Ma se quei due grandi maestri di creativa inquietudine tornassero, forse sarebbero i primi a non sorprendersene e inviterebbero, ancora una volta, a pensare a cosa si potrebbe fare.

 

Pubblicato sul numero monografico della rivista “Il Margine”, “La memoria sempre viva di Giuseppe Dossetti”  (n. 7, 2005) con scritti di Paolo Marangon, Milena Mariani, Michele Nicoletti, Vincenzo Passerini, Silvano Zucal.