Il Cristo notturno del genio inquieto. Caravaggio a Dublino

 

Leeson Street con le sue alte case in mattoni e gli eleganti portali dalle bianche colonne è una delle tipiche strade dublinesi dell’età georgiana. Al n. 35, nella parte nord della grande arteria che sbocca a ridosso del vasto parco di St Stephen’s Green, c’è una delle principali sedi dublinesi dei gesuiti.

E qui, una mattina di agosto del 1990, Sergio Benedetti, l’esperto italiano responsabile dei restauri alla Galleria Nazionale d’Irlanda, fece una scoperta sensazionale.

 

 

La vera “Cattura di Cristo”

Era stato invitato lì per un sopralluogo alla collezione di quadri posseduta dalla comunità. Ma il suo occhio si fermò subito, stupefatto, davanti a una grande tela, “Il tradimento di Cristo”, di Gerard van Honthorst, noto anche come Gherardo delle Notti. “Ma questo è il Caravaggio!” sbottò. E in effetti non era van Honthorst. Era Caravaggio, “il” Caravaggio, quella “Cattura di Cristo” dipinta da Michelangelo Merisi nel 1602 a trentun’anni durante il più felice periodo della sua residenza a Roma, e data per perduta.

Del dipinto circolavano numerose copie, per lo più di modesta qualità. Una di queste, esposta al Museo d’arte orientale e occidentale di Odessa, veniva da alcuni considerata, per la superiore qualità, l’originale.

Ma la scoperta al n. 35 di Leeson Street tolse ogni dubbio. Gli accurati accertamenti portarono gli studiosi internazionali a dire che, sì, quello di Dublino era proprio il Caravaggio perduto.

 

Il Grand Tour del quadro

Il quadro, attribuito all’oandese van Honthorst, uno dei più valenti seguaci dell’irrequieto e geniale pittore lombardo, era stato donato ai gesuiti nel 1930 dalla pediatra Marie Lea-Wilson, personaggio molto noto nella Dublino di quegli anni, che l’aveva acquistato dagli eredi del nobile scozzese William Hamilton Nisbet, uno di quei ricchi e colti anglosassoni che intrapresero quel viaggio iniziatico, chiamato Grand Tour, che li portava in Italia ad ammirare da vicino, e a studiare, le antichità classiche e l’arte rinascimentale, e a comperare tutto quello che potevano.

Il nobiluomo scozzese aveva acquistato il quadro a Roma dalla famiglia Mattei nel 1802. Esattamente duecento anni dopo che era stato eseguito da Caravaggio proprio nel palazzo romano del cardinale Girolamo Mattei, protettore e ispiratore dell’artista, ma anche austero responsabile della promulgazione dei decreti del Concilio di Trento.

È interessante notare che l’altro grande cardinale protettore e ispiratore di Caravaggio era stato, in precedenza, Francesco Maria del Monte, protettore anche di Galileo. I due potenti ecclesiastici compresero e coltivarono la genialità del tempestoso lombardo, così rivoluzionario e provocatorio nelle forme e nei contenuti al punto che più volte le tele a lui commissionate da altri ecclesiastici vennero poi rifiutate perché giudicate inadatte ad essere esposte in una chiesa.

Nella collezione dei Mattei arrivarono alcuni anni dopo anche i dipinti dell’olandese van Honthorst. È lì che in seguito si consumò quell’equivoco dell’attribuzione che resistette fino alla scoperta di Benedetti.

 

Catalogo della Mostra 1993-1994 alla Galleria Nazionale d’Irlanda sul Caravaggio scoperto da Sergio Benedetti.

 

Re della Galleria Nazionale

Con questa, i gesuiti dublinesi si trovarono ad avere in mano un capolavoro che valeva anche una fortuna. Devono averci pensato, visto che sono costretti a vendere le loro residenze, come quella di Hatch Street, non lontano da Leeson Street, bella e grande, che espone all’ingresso il cartello “in vendita”.

Ma con un atto di eccezionale generosità e intelligenza hanno dato il quadro in prestito illimitato alla Galleria Nazionale d’Irlanda. E lì, nel grande museo, pazientemente allestito dai dublinesi in questi ultimi centocinquant’anni attraverso una ammirevole serie di acquisti e donazioni, signoreggia.

Ha tolto lo scettro alla pur magnifica “Donna che scrive una lettera” di Vermeer, due volte rubata e ritrovata. Tutti gli altri, Rubens, Jordaens, Velazquez, van Dyck, Rembrandt, Jacob Ruisdael, Metsu, Poussin, Goya e la incredibile galleria degli italiani: Beato Angelico, Paolo Uccello, Mantegna, Filippino Lippi, Perugino, Tiziano, Guercino, Canaletto, Tiepolo, e tanti ancora, tutti sembrano fare da cornice alla “Cattura di Cristo”.

 

Dimenticato

Amato e cercato, Caravaggio è forse tra i grandi del passato il più vicino alla sensibilità di oggi, quella più comune, non solo quella della critica. Le sue sorprendenti inquadrature da regista cinematografico dei nostri giorni, i suoi primi piani del tutto anticonvenzionali, la sua avvincente teatralità, le sue scene spesso buie e trafitte da vertiginosi raggi di luce, il suo realismo senza censura, da cameraman che si intrufola nei quartieri dove non va nessuno, i suoi personaggi popolari che danno volti e sentimenti veramente terrestri a santi, martiri e malfattori, tutto questo semplicemente cattura, conquista, sbalordisce come forse nessun altro artista del passato.

Ma non è sempre stato così. Dopo una grande fortuna nella prima meta del Seicento, per tutto il Settecento e l’Ottocento il pittore lombardo fu sottovalutato se non addirittura dimenticato, il che forse spiega anche l’errata attribuzione della “Cattura di Cristo”.

È il mistero del genio, celebrato, imitato e poi magari dimenticato (capitò anche a Bach). Ma capace di rivelarsi appieno cento, duecento anni dopo.

 

Ritorno a Milano

Adesso il capolavoro ritrovato è in Italia. È in mostra fino al 9 gennaio a Milano, città natale dell’artista, al Museo diocesano di Corso di Porta Ticinese. Un’occasione da non perdere.

La Galleria Nazionale d’Iranda è momentaneamente orfana. I visitatori restano impietriti quando, arrivati nella sala di Caravaggio e i caravaggeschi, scoprono che la “Cattura di Cristo” non c’è. Al suo posto hanno messo il “Davide e Golia” di Orazio Gentileschi, uno dei più fedeli seguaci del lombardo. Giusto per non lasciare vuoto quello spazio, che sarebbe sembrato una voragine.

Ma la voragine resta e non la riempie certo l’enorme Golia accovacciato che pateticamente alza la mano per proteggersi dalla sciabola che il piccolo Davide sta serenamente e implacabilmente abbattendo su di lui.

 

Il buio e la luce

E così i visitatori non potranno vedere la movimentata e davvero buia scena notturna della cattura di Cristo. Non potranno vedere Giuda che, affiancato da due soldati (di un terzo si intravede soltanto parte della testa), abbraccia il maestro accingendosi a dargli il bacio del tradimento, mentre Giovanni, urlando e gesticolando, invoca aiuto e un altro uomo (lo stesso pittore, probabilmente) solleva da dietro una lanterna per vedere quello che succede.

Ma non è la luce della lanterna che illumina la scena. La luce, geniale invenzione tecnica ma anche profonda interpretazione mistica, viene da fuori e illumina solo i volti e le mani, e sprazzi di rosso delle vesti e di nero delle corazze dei personaggi immersi nel buio più totale.

Illumina, soprattutto, uno dei più intensi volti di Cristo di tutta la storia della pittura. Ma anche uno dei più biblici.

 

Michelangelo Merisi da Caravaggio, “La cattura di Cristo”, Dublino, Galleria Nazionale d’Irlanda (da Wikimedia Commons).

 

Scandalo e mistero

La cattura è l’inizio della Passione. Il momento terribile è arrivato. Cristo l’ha atteso in una notte di disperazione e di insopportabile solitudine, implorando con insistenza il Padre di risparmiargli quella fine. Adesso l’accetta. E sul suo volto non c’è solo la tristezza per il tradimento del discepolo Giuda che lo sta abbracciando, c’è l’accettazione, composta, ma nata tra indicibili tormenti, di un destino non voluto. Un atto di fede nella notte più nera, come quella luce che gli illumina il volto e che non ha un’origine umana o naturale. Se lo vuole il Padre, che sia. Ma perché questa strada? Perché non l’altra, quella dei miracoli, quella dell’ingresso trionfale in Gerusalemme? Angosciante interrogativo di tutta la sua vita pubblica.

Deve averlo sperato, Cristo, che poteva tirarsi dietro le folle, convincere della buona novella la maggioranza, magari diventarne il capo, il re. Quante volte l’avevano lusingato in proposito, ma lui se n’era fuggito. Eppure, quanto bene avrebbe potuto fare! Leggi giuste, pace, giustizia, fraternità, pane, salute.

E invece no, il Padre gli continuava a ricordare che la strada della redenzione che lui doveva percorrere e indicare agli altri era quella della debolezza più assoluta. Dell’ignominia, perfino. Se lo vuole il Padre, che sia, eccomi. Nel Cristo del giovane lombardo, cresciuto tra bettole e cardinali, c’è questa fede, questo mistero, questo scandalo.

 

Pubblicato sul quotidiano “l’Adige” il 15 dicembre 2004 e nel libro “Bloomsday. Cronache dublinesi” (2011).