“I sommersi e i dimenticati”. I migranti scomparsi in mare e lo strazio delle madri e dei padri. Un reportage di Francesca Mannocchi per “La Stampa” (mentre in Italia è tornata la barbarie legalizzata)

Perché non li dovremmo salvare? Perché l’Italia crea gravi ostacoli a chi, come le navi delle Ong, vuol salvare bambini, giovani, famiglie che rischiano di annegare nel Mediterraneo? Perché questa barbarie legalizzata che ritorna dopo i famigerati decreti sicurezza? In nome di quali valori? Del blasfemo slogan di destra  “Dio, patria, famiglia”? Quale Dio? Quale patria? Quale famiglia? In mare annegano anche intere famiglie… Questi sono omicidi legalizzati.

In questo reportage per il quotidiano “La Stampa”, Francesca Mannocchi ci racconta dalla Tunisia lo strazio dei familiari di chi è partito e non ha dato più notizie… Partito da un Paese senza più futuro.

 

I sommersi e i dimenticati

di Francesca Mannocchi

 “La Stampa”, 10 gennaio 2023

 

Zarzis (Tunisia)

Nel 2011, ai tempi della rivoluzione, Walid Zreidat aveva cinque anni, suo padre Salem ne aveva venti di più, è sceso in piazza insieme a migliaia di giovani come lui chiedendo al suo Paese il cambiamento che una generazione intera aspettava da tempo: via Ben Ali, avanti il prossimo, cioè la democrazia.

Quando ricorda quei giorni Salem dice che sorrideva e sorridevano tutti, che il futuro era confuso ma vicinissimo, e aveva un tratto in comune per ogni persona che protestava cioè la certezza che sarebbe stato illuminato da dignità e diritti.

Poi, però, qualcosa è andato storto.

 

Valid, dov’è?

Oggi, dodici anni dopo, il volto di Salem, che non ha nemmeno quarant’anni, è segnato da un tempo accelerato che lo fa sembrare vecchio di secoli, cammina in casa, avanti e indietro dal divano alla stanza del figlio, Walid, non è vivo e non è morto, Walid che è l’altra faccia delle partenze del Mediterraneo, un ragazzo di quindici anni che ha provato a raggiungere l’Europa attraversando il mare e non è mai arrivato a destinazione.

Il suo corpo, ora, come centinaia, migliaia di altri, è disperso a largo di Zarzis, nel Sud della Tunisia.

Il 21 settembre, giorno della partenza, il tempo era buono e la barca che lo trasportava ha lasciato la costa con altre diciassette persone a bordo dirette a Lampedusa. A terra, ad aspettare notizie dell’arrivo, restavano madri e padri, sorelle e fratelli.

Il giorno dopo però nessuno di loro riceveva notizie dai ragazzi, e così il giorno successivo, i parenti sono andati alla polizia e dalle autorità portuali a denunciare l’accaduto, chiedendo alla guardia costiera di far uscire in mare le pattuglie di soccorso, ma nessuno ha fatto niente, tranne i pescatori locali che hanno cominciato a cercare i dispersi.

Pescatori in mare e madri a terra, perché – dicono tutti qui – il mare ruba ma a volte dà qualcosa indietro.

 

La barca degli adolescenti

Il primo corpo che il mare ha restituito è stato quello di una giovane ragazza di ventitré anni, Malek, l’hanno riconosciuta i genitori dal braccialetto che indossava.

La corrente l’aveva spinta a Djerba.

Insieme a lei è stato ritrovato il telefono, stretto in vita, avvolto nella plastica, le ultime telefonate erano al trafficante che aveva organizzato la partenza, qui lo chiamano «el barizi», il parigino, tutti lo conoscono, è lui a organizzare la maggior parte dei viaggi, tutti in fretta, spesso gente dello stesso quartiere.

Così è accaduto per il loro viaggio, quello della «barca degli adolescenti», erano tutti giovanissimi e tutti vicini di casa.

Tre settimane dopo il primo ritrovamento, una donna ha visto l’immagine di un cadavere riportato a riva da un pescatore, ha riconosciuto la maglietta di suo figlio e ha scoperto che una volta a terra le autorità avevano decretato che il corpo appartenesse a un ragazzo di origine subsahariana e senza esame del Dna l’hanno fatto seppellire dove di solito vengono portati i migranti riportati indietro dalla corrente, nel «cimitero degli ignoti», un lembo di terra nato dieci anni fa su un terreno che prima era discarica e ora ospita i cadaveri di chi non ce l’ha fatta.

 

Nel cimitero degli ignoti

Uomini, donne e bambini che arrivavano da lontano, spesso partiti dalle coste libiche e spinti in Tunisia dalle onde. Corpi senza nome, vite senza identità, sepolte con una lettera scritta su un sasso che indica se lì c’è un uomo o una donna, e una data, l’anno di ritrovamento del corpo. In mezzo ai sassi dei senza nome, poi, ci sono i sassi con un fiore, o una piccola statua di ceramica bianca. Sono i cadaveri dei bambini e delle bambine.

È lì, nel cimitero degli ignoti, dei morti che arrivavano da lontano, hanno vissuto e sono morti come esseri umani di serie B, che le autorità tunisine hanno spedito anche i corpi dei loro giovani riportati a riva dopo essere annegati.

Quando la donna ha riconosciuto la maglia di suo figlio e ha chiesto che il corpo del ragazzo fosse riesumato, e così tra le grida delle madri e la protesta della società civile, sono state riaperte le fosse, estratti altri corpi di recente sepoltura e tutti appartenevano ai giovani del barchino.

 

Passavano le sere guardando il mare

Da allora insieme alla ricerca dei corpi dei dieci ancora dispersi, le famiglie cercano la verità e col passare delle settimane si alimenta il sospetto che quella notte di settembre ci sia stata una collisione con una nave o un incidente finito male con la guardia costiera che però, continua a non dare né dettagli né spiegazioni.

Le madri restano in piazza a piangere, coi veli a stringere il volto, e le stanze dei giovani restano vuote, quella di Omar, come quella del giovane Walid. Restano i quaderni di scuola, un poster di Sponge Bon, lo zaino e la finestra aperta.

Il padre dice che i ragazzi si vedevano ogni giorno nell’unico posto di ritrovo, un’ex centrale elettrica che avevano trasformato in un campo da bocce.

Da lì, su un muretto, passavano le sere a parlare e guardare il mare in direzione dell’Europa. Avevano scritto i loro nomi: Yessine, Omar, Rayen, Loay, Mouna, Sajda e sotto: non rinunceremo ai nostri diritti.

 

Perché non posso essere come gli altri?

Quando parla delle responsabilità dei morti, Salem, non si tira indietro, Suo figlio aveva venduto il suo motorino, e poi gli aveva chiesto dei soldi, lui aveva provato a fare resistenza, ma – dice – quando Walid gli ha chiesto, guardando l’Europa, «perché io non posso andare?

Perché io non posso essere come gli altri?», Salem ha ceduto.

Oggi vive il presente del dolore più difficile, quello di chi cerca un figlio scomparso e spera di trovarlo, anche da morto.

Quando il peso del lutto lascia spazio alla razionalità, Salem dice che se i cittadini tunisini avessero diritto di partire come gli altri, se potessero ottenere un visto, le famiglie smetterebbero di contare i cadaveri, perché «se chiudi una porta a un giovane, ne devi aprire un’altra. Per i nostri figli, invece, i confini legali sono chiusi e quelli illegali sono mortali».

 

In fuga da un paese che ha perso fiducia e speranza

La storia della scomparsa di Walid e dei suoi amici è tragicamente ordinaria: un’imbarcazione che parte con 15, 20 persone e in dieci ore raggiunge le coste italiane.

Dall’altra parte del mare, da noi, sono i barchini fantasma con a bordo i «minori non accompagnati», qui in Tunisia è la via di fuga sempre più comune tra i giovani e giovanissimi da un Paese che sente di aver perso fiducia e speranza.

A parlare ancora una volta sono i numeri, secondi i dati dell’Iom, l’organizzazione internazionale per le migrazioni, il numero di cittadini tunisini arrivati in Italia è aumentato in maniera esponenziale in questi anni. Erano 1600 nel 2014, circa 6000 nel 2017, 12 mila nel 2020 e sono stati 17 mila lo scorso anno.

Solo lo scorso anno trentamila persone sono stati respinte dalle guardie costiere e centinaia sono scomparsi, come Walid e i suoi amici. Numeri troppo alti per essere sistemati nel magazzino degli slogan. Per capirli bisogna leggere, incrociandole, la realtà economica e quella politica del Paese.

 

Le primavere arabe hanno lasciato il posto ai nuovi dittatori

L’economia tunisina è in grande sofferenza, vive una crisi sistemica aggravata dall’invasione russa in Ucraina. Negli ultimi mesi hanno cominciato a scarseggiare beni di base come zucchero e latte, la disoccupazione si attesta intorno al 20% fino a raggiungere picchi del 30-35% tra i giovani delle aree più remote.

Il Paese spera in un prestito del Fondo Monetario da quasi due miliardi di dollari, prestito che però è vincolato a cambiamenti significativi nella gestione delle risorse pubbliche che incontrano la resistenza di chi, già povero, rischia di vedere precipitare il proprio potere d’acquisto.

Della democrazia multipartitica emersa dopo la rivoluzione resta poco e niente. L’attuale presidente Kais Saied da più di un anno ha preso pieni poteri, fatto approvare una nuova costituzione che di fatto svuota il Parlamento di tutte le sue funzioni e indetto elezioni lo scorso dicembre. Ma nove tunisini su dieci hanno disertato le urne.

La maggioranza dei partiti ha invitato Saied a dimettersi, il potente sindacato tunisino Ugtt ha rotto con il presidente minacciandolo di bloccare il Paese, e anche nelle zone che avevano dimostrato un grande sostegno alle promesse di Saied, eletto con netta maggioranza nel 2019, cominciano a vedersi le prime crepe.

Una restaurazione morbida, dunque, in cui le vecchie generazioni si lasciano andare alla rassegnazione o alla nostalgia di quello che fu, e le giovani provano a scendere in piazza quando le proteste non vengono vietate o represse, o a partire in preda a uno stato d’animo che somiglia sempre di più a una disperazione collettiva.

 

Fuggono anche  intere famiglie

In una crisi così profonda e allargata, la migrazione sta assumendo molte forme diverse.

A partire non sono più solo ragazzi che non vedono prospettive di lavoro o sviluppo, partono intere famiglie, giovani donne. E se ne va anche chi può viaggiare legalmente ottenendo un visto, il Forum per i Diritti Sociali Tunisino stima che negli ultimi sei anni trentamila ingegneri e quattromila medici hanno lasciato il Paese in maniera permanente.

Per chi resta le possibilità sono sempre meno, a Zarzis sono le olive, la pesca, il turismo che arriva l’estate e l’inverno spegne tutto, come ora.

A restare sempre meno giovani, qualche anziano nei caffè, i bambini e le madri senza più figli, le sorelle a chiedersi chi sarà il prossimo a partire e non arrivare.

 

Una bara vuota per la piccola Salima

Da tre mesi di fronte alla sede distaccata del governatorato ci sono tre tende, sopra, appese, ci sono le fotografie dei morti e quelle dei dispersi.

Venerdì i cittadini di Zarzis sono di nuovo scesi in strada a chiedere alle istituzioni di sapere cosa è successo ai loro figli, dove siano i loro corpi.

L’hanno fatto sostenuti da tutta la comunità, che ha attraversato con loro le vie della città. I più giovani tenevano sulle spalle delle bare vuote, sono quelle che aspettano i dispersi.

C’era anche la bara vuota di una bambina, è Salima, anche il suo corpo è ancora in mare. Quello di sua madre Nour è stato ritrovato. Avevano provato a chiedere il ricongiungimento familiare con Karim, il capofamiglia in Italia dal 2010. Vive nelle Marche, lavora regolarmente in una ditta che monta pannelli solari, ma attesa dopo attesa anche per loro la rabbia e la rassegnazione hanno vinto sull’impossibilità di avere un visto, così la donna e la bambina sono partite, anche loro fidandosi del «parigino», del bel tempo e della statistica.

 

Se potessimo usare quel coraggio per migliorare il nostro Paese…

Tutti qui hanno un parente che ce l’ha fatta ad attraversare il mare, ora in Francia, Germania, in Italia, perché – hanno pensato tutti – non dovrei farcela io?

Salem dice che resta legato al suo Paese, che le sue radici sono qui e lui, a differenza dei ragazzi, non ha mai pensato di andare via. Ma dice anche che c’era sempre un motivo buono per restare, o almeno c’è stato finché non si sono vanificate le speranze della rivoluzione.

Quello che l’Europa non capisce, dice, è che questi ragazzi non sentono radici perché nessuno li rappresenta, non hanno niente cui attaccarsi, niente che sperano possa cambiare «attraversano i confini con un coraggio senza pari, se potessimo usare quel coraggio, quella forza, per migliorare il Paese saremmo uno dei paesi più ricchi del mondo, ricchi dei nostri giovani, ma li stiamo perdendo tutti».

Il Presidente Kais Saied ha detto che aprirà un’indagine che la verità arriverà, ma ha anche detto che i migranti sono responsabili della loro scelta e se chiamato a dare spiegazioni, cambia aria e discorso.

D’altronde è complicato per le istituzioni ammettere che sono sempre di più i tunisini che se ne vogliono andare, ed è complicato anche perché sulla dissuasione delle partenze si gioca una buona parte degli aiuti che arrivano dall’Europa per controllare (leggasi militarizzare) le frontiere a Sud del Mediterraneo.

 

Soldi europei per il controllo delle frontiere, non per lo sviluppo

La storia dei dispersi di Zarzis, dei giovani morti in mare, è il simbolo – uno dei tanti – della totale assenza di politiche migratorie di lungo termine, della manifesta inefficacia di tutte le misure di esternalizzazione del controllo delle frontiere prese negli ultimi anni.

Soldi in cambio della protezione dei confini. Importa sempre meno, o non importa affatto, quale sia il prezzo. E il prezzo non sono solo i morti, è anche una mancata progettualità sugli investimenti economici in Tunisia, che sono da anni solo condizionati al contenimento e riassorbimento dei migranti, con l’Europa che dice: ti aiuto solo se porti indietro i tuoi cittadini e impedisci loro di partire.

Significa che gli investimenti europei anziché contribuire allo sviluppo, continuano a vincolarlo al controllo delle frontiere, bloccando le politiche di redistribuzione delle risorse.

Tanti soldi a pochi individui. Tanti fondi a poche istituzioni.

 

Le madri chiedono la verità

Fattori che continuano a promuovere il disagio sociale e dunque le proteste e dunque il tentativo di migliaia di giovani di cercare fortuna in altri Paesi, stanchi di sperare che arrivi lavoro in un Paese in cui il controllo dei rimpatri vincola lo sviluppo economico. È così, di accordo in accordo, di fondi in fondi, di rimpatrio in rimpatrio, che questa rotta è diventata la più pericolosa al mondo.

È difficile spiegare alle madri che venerdì sono di nuovo scese in piazza a manifestare e chiedere giustizia per i propri figli, che i volti che tengono in mano, reliquie non di un passato ma di un futuro che non esiste più, rappresentino per l’Europa una minaccia alla sicurezza.

Quando torna a casa dopo la marcia, Salem guarda la foto del figlio Walid. Vuole solo un osso, una maglia, una prova che sia morto. Finché non lo troveranno, dice, ogni si siederà nella sua stanza, si affaccerà alla sua finestra, e lo aspetterà tornare.

Francesca Mannocchi

“La Stampa”, 10 gennaio 2023

In questo blog vedi anche:

I cimiteri di Zarzis, tombe senza nome