La sanguinosa guerra civile in Etiopia: “La crisi nel Tigray fa paura all’Africa” (di Giulio Albanese)

Etiopia, Tigray, civili in fuga dalla guerra (www.vaticannews.va)

«Il conflitto del Tigray continua a mietere numerose vittime. Ad esempio, il 4 ottobre scorso, almeno 50 persone sono state uccise dopo che l’aviazione della Forza di difesa nazionale etiopica (Endf) ha bombardato una scuola che ospitava numerosi sfollati ad Adi Daero, nella regione del Tigray settentrionale…

D’altronde senza che sia consentito l’accesso di giornalisti indipendenti e con una presenza limitata di operatori umanitari internazionali, riuscire a monitorare lo scontro, ormai quotidiano tra gli opposti schieramenti, è assai arduo….» (Giulio Albanese, “L’Osservatore Romano”, 14 ottobre 2022)

 

La crisi nel Tigray fa paura all’Africa

di Giulio Albanese, “L’Osservatore Romano”, 14 ottobre 2022

 

L’Etiopia settentrionale continua ad essere un campo di battaglia e la situazione umanitaria è drammatica. Gli attori del conflitto, che interessa primariamente la regione del Tigray ma che si è sconfinato nelle regioni vicine di Amhara e di Afar, sono da una parte le forze governative etiopiche, affiancate da reparti dell’esercito eritreo e amhara; dall’altra è invece in campo il Fronte di Liberazione del Tigray (Tplf) che l’anno scorso fu dichiarato organizzazione terroristica dal Parlamento etiope, dopo aver dominato la scena politica nazionale dal 1991 al 2018.

Il vero bilancio delle vittime è sconosciuto, ma potrebbe avvicinarsi secondo fonti della società civile a livelli che rendono il conflitto uno dei più letali al mondo: oltre 500.000 morti.

D’altronde, senza che sia consentito l’accesso di giornalisti indipendenti e con una presenza limitata di operatori umanitari internazionali, riuscire a monitorare lo scontro, ormai quotidiano tra gli opposti schieramenti, è assai arduo.

Ciò non toglie che le informazioni che giungono da fonti indipendenti sono a dir poco inquietanti. A pagare il prezzo più alto è la popolazione civile.

 

Cartina pubblicata sul sito dell’Ispi (Istituto per gli studi di Politica internazionale)

 

Al progressivo peggioramento della situazione umanitaria, aggravata non solo dalla persistente carestia e dalla pandemia da covid-19, il perdurare dello stato di belligeranza è fortemente condizionato dalle caratteristiche del conflitto. Esso è asimmetrico nel senso che i combattenti del Tplf, essendo profondi conoscitori della regione, si sono insediati in alcune zone montuose impervie dalle quali operano azioni di disturbo nei confronti dei loro avversari.

È bene rammentare che è dal novembre 2020 che le ostilità si protraggono e stanno contaminando gli equilibri nella regione del Corno d’Africa.

Stando a quanto riferito dall’agenzia Fides, Cameron Hudson, analista ed ex capo degli Affari africani per il Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ha dichiarato che «è confermata la presenza di forze che, volontariamente o meno, stanno combattendo in questo conflitto dagli stati vicini: Eritrea, Somalia e Sudan e ora segnali crescenti che anche forze provenienti da Ciad, Niger e Libia potrebbero giocare un ruolo».

Detto questo viene spontaneo domandarsi quali siano le ragioni che determinano una sorta di oscuramento mediatico rispetto a quanto sta avvenendo nell’Etiopia settentrionale.

Il primo motivo è tecnico nel senso che le linee telefoniche e i collegamenti Internet nella regione del Tigray sono bloccati, ragione per cui le comunicazioni con il mondo esterno avvengono attraverso mezzi satellitari.

Inoltre la forte risonanza internazionale della guerra russo-ucraina ha distolto l’attenzione della stampa internazionale, non solo dall’Etiopia, ma dall’Africa nel suo complesso.

Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha suggerito che il razzismo potrebbe contribuire alla mancanza di interesse internazionale in un conflitto così mortale.

Tedros — che appartiene all’etnia tigrina — ha affermato ad agosto che la situazione causata dal conflitto nel suo Paese d’origine è peggiore di qualsiasi altra crisi umanitaria al mondo, chiedendosi se la mancanza di impegno globale possa essere collegata al «colore della pelle delle persone».

E dire che il conflitto del Tigray continua a mietere numerose vittime. Ad esempio, il 4 ottobre scorso, almeno 50 persone sono state uccise dopo che l’aviazione della Forza di difesa nazionale etiopica (Endf) ha bombardato una scuola che ospitava numerosi sfollati ad Adi Daero, nella regione del Tigray settentrionale.

L’Endf ha negato di avere preso di mira i civili, dicendo di aver effettuato l’attacco per neutralizzare membri del Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf).

Adi Daero si trova a circa 40 chilometri dal confine con l’Eritrea. La scuola era in un elenco di siti che ospitano sfollati interni che l’Alto commissariato delle Nazioni Unite (Unhcr) aveva inviato lo scorso gennaio al ministero degli esteri ad Addis Abeba, secondo gli operatori umanitari e fonti dell’Onu.

Un testimone ha descritto l’attacco come una «carneficina totale».

 

Il premier etiope Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace 2019 per la fine delle ostilità con l’Eritrea, ha tradito le speranze gettando il Paese in una guerra civile sanguinosa e impedendo l’accesso alla stampa internazionale nelle zone di conflitto.

 

Il dato più allarmante, guardando al contesto generale, è che le speranze di un rapido soccorso per milioni di civili minacciati da malnutrizione, malattie e attacchi diretti sono state vanificate in questi giorni in quanto i tanto attesi colloqui di pace sono stati rinviati sine die; sarebbero stati i primi da quando nell’agosto scorso è stato violato il cessate il fuoco.

Di positivo c’è l’avvio di un’iniziativa negoziale da parte dell’Unione africana (Ua) che, come organismo panafricano, è sempre più preoccupato degli effetti della crisi armata sulla geopolitica, sia a livello regionale, come anche continentale.

Il Tplf ha accolto con cautela la nuova iniziativa dell’Ua, ma ha chiesto maggiori informazioni sui partecipanti, sugli ordini del giorno e sulle disposizioni di sicurezza per i propri delegati. «Siamo impegnati per una risoluzione pacifica dell’attuale conflitto… ma abbiamo bisogno di chiarimenti per stabilire un inizio di buon auspicio per i colloqui di pace», si legge in una missiva inviata all’Ua dal leader tigrino Debretsion Gebremichael.

Anche le autorità di Addis Abeba, che proprio in questi giorni hanno ricevuto la visita del senatore statunitense Jim Inhofe, a capo di una delegazione del senato di Washington, sono disponibili a promuovere una piattaforma negoziale che possa portare ad una definitiva cessazione delle ostilità.

È evidente che il dibattito è molto complesso e l’ipotesi di un’eventuale secessione del Tigray non è ben vista sia in Etiopia, come anche nei circoli diplomatici.

Come ha rilevato l’analista Aklog Birara, per anni Senior Economic Adviser in Etiopia, «la secessione è raramente una soluzione ai conflitti etnici, non garantendo la protezione delle restanti minoranze e produce nuove forme di violenza», precisando che in Biafra, a cavallo tra il 1967 e il 1980 è successo proprio così: «Più di due milioni di nigeriani sono morti di cui il 75 per cento bambini. (…) e alla fine la Nigeria ha vinto la guerra e il leader ribelle dei secessionisti Ibo, il colonnello Ojukwu e i suoi associati sono fuggiti in Costa d’Avorio».

La questione di fondo è che purtroppo questi due anni di guerra hanno determinato una tale lacerazione tra Tplf e Addis Abeba per cui lo sforzo dei mediatori non sarà solo quello di ascoltare le ragioni di una e l’altra parte, ma anche sarà indispensabile elaborare un compromesso, inteso nella sua più nobile accezione etimologica: quella del «cum promettere», cioè del promettere insieme un impegno di pace per il futuro atteso e sperato.

Parafrasando Augusto Monti, «il presente è lava in moto, e a giudicare si potrà solo quando la colata sarà fredda e ferma». Una citazione, questa, che mette in evidenza la necessità di pervenire il prima possibile ad un «cessate il fuoco», consentendo il soccorso della stremata popolazione civile. Sono infatti almeno 13 milioni le persone, secondo le Nazioni Unite, che hanno bisogno di essere soccorse nell’Etiopia settentrionale, vale a dire nel Tigray e nelle regioni limitrofe.

Com’è noto la posizione della Santa Sede è stata sempre molto chiara a questo proposito: cessazione delle ostilità, garanzie per un’equa ed immediata assistenza alimentare e sanitaria ai civili, ripristino al più presto dell’armonia sociale.