È iniziata con un padre e la sua richiesta di aiuto: «Mia figlia non esce più dalla sua stanza. Potete attivare un gruppo anche per noi genitori?». Era il 2019, già prima del Covid-19, quando l’uomo si è rivolto all’associazione Ama che a Trento organizza i gruppi di auto mutuo aiuto, incontri comunitari nei quali una decina di persone che condividono lo stesso problema dialogano e si confrontano.

A ricordare l’episodio è Miriam Vanzetta, coordinatrice dell’associazione Ama. Alle prime riunioni si sono presentate cinquanta persone che temevano di avere un figlio “hikikomori”, come dagli anni 80 si è iniziato a chiamare in Giappone i ragazzi che scelgono di isolarsi in casa. Oggi di gruppi per genitori con figli ritirati ne sono attivi due e un terzo è in arrivo.

In Trentino, secondo il servizio sanitario locale, i ragazzi che vivono questo problema sono seicento. Ma il disagio ha una vasta eco in tutta Italia.

E Ama dagli anni 90 è punto di riferimento nazionale per il movimento dell’auto mutuo aiuto, ha contribuito in varie regioni all’attivazione di numerosi gruppi su elaborazione del lutto, gioco d’azzardo, dipendenze o disturbi alimentari.

Ora è emersa una nuova urgenza sociale. «Vicenza, Bologna, Ancona, Palermo. Da più città ci chiedono qual è la strada per avviare gruppi ama dedicati a genitori di ragazzi ritirati, secondo quella che è la nostra esperienza. Forse il Covid-19, anche in questo caso, ha fatto da detonatore d’un disagio latente», spiega Miriam Vanzetta. Una sofferenza – attenzione, non una patologia riconosciuta – tanto estesa quanto invisibile.

Sono più di centomila i giovani isolati in Italia, secondo le stime di Hikikomori Italia, che insieme a Hikikomori Italia Genitori organizza dal 2017 una cinquantina di gruppi di auto mutuo aiuto, in presenza e online, capillarmente presenti in quasi tutte le regioni, dieci solo nel Lazio. Senza contare il gruppo Facebook che viaggia verso i quattromila genitori iscritti.

Spiega Marco Crepaldi, psicologo e presidente fondatore: «Riceviamo dai genitori fino a dieci richieste di aiuto al giorno. Collaboriamo con cinquanta psicologi e abbiamo un referente per ogni regione. La nostra rete lavora anche per chiarire degli aspetti di questo disagio che ha vari gradi di estremizzazione».

Anche a Forlì è attiva l’associazione Ama Hikikomori, nata un anno fa dalla spinta di genitori e psicologi, con due gruppi in Romagna e uno a Bologna. «Grazie a un questionario somministrato tra 290 genitori abbiamo tracciato un primo profilo dei ragazzi e delle loro famiglie», aggiunge Crepaldi. Ne è uscito che al 90 per cento dei casi i ritirati sono maschi, l’età media è sui 20 anni ma il problema può manifestarsi intorno ai 15.

I ragazzi hikikomori sono in genere studenti brillanti e dotati, inclini all’anticonformismo, rigidi ai compromessi e molto sensibili. Non sono rari casi più cronici di trentenni.

Le famiglie, almeno quelle che arrivano ai gruppi d’auto mutuo aiuto, appartengono al ceto medio alto e hanno un livello di istruzione elevato, dimostrano di saper analizzare in profondità il disturbo adattivo.

Aggiunge Giulia Tomasi, psicoterapeuta per l’associazione Ama: «Il problema si ripresenta in quelle case dove si proiettano sui figli aspettative più pressanti. Succede in particolare per i ragazzi. Ma aumentano anche le ragazze hikikomori.

Il passaggio delicato è tra l’infanzia, dimensione protetta, e l’adolescenza dove ci si inizia a rapportare con l’aggressività di un mondo ormai iper individualistico». Ai gruppi partecipano in prevalenza madri mentre gli uomini, se si uniscono, restano sullo sfondo.

Facilitatori e psicologi raccontano di genitori afflitti da un senso di colpa insostenibile, che confidano al gruppo di averle provate tutte: sgridate, punizioni, urla. Molti si avvalgono già di uno psicoterapeuta. Andare al lavoro la mattina e vedere altri giovani in attesa del bus per la scuola dà il tormento.

Il futuro, anche economico, del figlio chiuso nella stanza che non studia e non lavora li angoscia, in tanti hanno attivato assicurazioni per la vita. La vergogna è tale che il loro ragazzo ritirato può diventare un segreto inconfessabile persino agli amici intimi. Ci si sente giudicati, etichettati.

Ci sono genitori che si mettono in disparte come degli hikikomori, niente più cinema o passeggiate in montagna. Si vive in funzione del proprio figlio.

Quando si approda a un gruppo di auto mutuo aiuto però si può provare sollievo. Ci si ritrova fra persone che condividono lo stesso orizzonte e si lenisce il senso di isolamento.

Attraverso il dialogo nelle riunioni mensili o bisettimanali si comprende che il problema non è di origine educativa ma nasce da un malessere psicologico.

Osserva Chiara Illiano, psicologa e psicoterapeuta, coordinatrice area psicologica Hikikomori Italia: «C’è maggiore ascolto e fiducia reciproca se sono le madri a scambiarsi consigli sui figli. Lo psicoterapeuta talvolta è percepito come un professionista lontano dalle dinamiche familiari e i suoi indirizzi vengono respinti».

Ancora, ci sono genitori che vedono i propri ragazzi sempre incollati allo schermo e finiscono per attribuire la colpa del ritiro sociale alla dipendenza da Internet. Ma non è così, spiegano gli psicologi e operatori intervistati. Le chat e i social, sono spesso gli unici canali verso l’esterno, troncarli aggrava l’isolamento.

E nei gruppi il confronto serve a capire che l’abuso del virtuale, quando c’è, può essere la conseguenza del ritiro, e non la sua causa.

Inoltre chi soffre di Gaming Disorder, patologia riconosciuta dall’Oms, a differenza dell’hikikomori non sente ansia a uscire per strada. Non c’è solo il digitale poi, molti passano le ore immersi nei libri, film, serie tv, anche in attività artistiche.

Elisabetta Migliore e Livia Bussalai sono le due facilitatrici di uno dei gruppi ama di Trento per genitori: «Vediamo che madri e padri si confrontano molto su come ricostruire il dialogo coi figli».

L’incomunicabilità può arrivare a stati d’ansia forti e porte chiuse a chiave. Giovani che invertono il ciclo del sonno pur di non incontrare nessuno in casa, e escono dalla stanza solo di notte. Una ragazza alla ricerca di isolamento estremo dormiva dentro il proprio armadio.

Eppure, col dialogo anche attraverso la porta chiusa è possibile lentamente aprire degli spiragli.

«La prima prassi che diffondiamo è di non colpevolizzare il ragazzo, di non tormentarlo per i fallimenti scolastici o lavorativi. I genitori devono invece costruire grazie all’ascolto un ponte tra la porta della camera e del portone, tra lo spazio domestico e il fuori, così che il figlio le varchi entrambe», spiega Elena Carolei, presidente di Hikikomori Italia Genitori.

È bene che si dimostrino comprensivi, affinché il ragazzo abbassi la guardia e torni per esempio a mangiare con un po’ di calma assieme alla famiglia, senza consumare il pasto in due minuti e scappare il prima possibile dagli sguardi di condanna e preoccupazione, o, peggio, farsi lasciare il piatto davanti alla porta.

Se l’ambiente si rasserena il giovane lentamente, forse, può aprirsi. Magari torna a fare piccoli lavoretti in casa, di cucina, o si ferma a conversare sul divano.

A quel punto può uscirsene con una domanda, un desiderio che riapre al mondo esterno, come quello che ha raccontata una mamma: «Un giorno all’improvviso mio figlio mi ha guardato e mi ha detto: vorrei andare a vedere il mercato dei fumetti. E così siamo tornati per la strada. Assieme».