Dossetti e la Rosa Bianca

Il 31 dicembre 1985 l’associazione Rosa Bianca incontrò a Bologna don Giuseppe Dossetti.

Un incontro destinato a segnare profondamente l’attività dell’associazione negli anni seguenti.

 

 

Dossetti, allora, era alla vigilia del suo ritorno sulla scena pubblica – che sarebbe culminato nel 1994 con i suoi drammatici e insistenti appelli alla mobilitazione in difesa della Costituzione della Repubblica – dopo trent’anni di silenzio e di appartata ma intensa operosità e preghiera.

Il 1986 sarà infatti l’anno della riscoperta pubblica di questo protagonista della politica e della spiritualità del nostro tempo: il 22 febbraio riceverà a Bologna dalle mani del sindaco l’ “Archiginnasio d’oro” e pronuncerà nell’occasione un memorabile intervento e in settembre terrà a Sorrento una densa relazione, “Testimonianza di un monaco”, nell’ambito dell’annuale corso di aggiornamento dell’Università Cattolica.

L’86 è anche l’anno in cui muore Giuseppe Lazzati (18 maggio) alla cui lezione Dossetti richiama con forza i cattolici italiani. Sempre in quell’anno pubblica due importantissime introduzioni ad altrettanti, notevoli volumi: Le querce di Montesole, di Luciano Gherardi, sulle comunità martiri della violenza nazista a Marzabotto, e la monumentale edizione di Genesi curata dal suo confratello Umberto Neri per l’editore Gribaudi.

Alla fine del 1986 e alle soglie del nuovo anno Dossetti incontra nuovamente (è il 1° gennaio 1987) la Rosa Bianca riunita a Bologna per una tre giorni di studio e di festa. II ritorno di Dossetti sigilla un’amicizia con lui e la sua comunità che si consoliderà negli anni.

Di questi due incontri, all’inizio e alla fine di un anno così decisivo nella vicenda pubblica di Dossetti, il mensile “II Margine” pubblicò due puntuali resoconti che qui ristampiamo.

Da essi emerge la fresca scoperta da parte della Rosa Bianca di tutta una serie di temi, stimoli, provocazioni, suggerimenti, giudizi che hanno segnato in modo inconfondibile la presenza su questa terra di Dossetti e che rimangono intatti nella loro chiarezza, unitarietà, forza e valore.

 

Dossetti incontra l’associazione Rosa Bianca.

 

DOSSETTI, UN UOMO CONQUISTATO DALLA PAROLA

di Vincenzo Passerini

(pubblicato su “Il Margine”, n. 1, 1986)

 

“Sorvegliate la vostra vita, le vostre lampade non si spengano,

e non si sciolgano i vostri fianchi,

ma siate pronti.

Non sapete l’ora in cui nostro Signore viene.

Riunitevi spesso”.

(Didaché, cap. XVI)

 

Nel quarto volume dell’Enciclopedia Europea dell’editore Garzanti, Giuseppe Dossetti è “sepolto” tra John Dos Passos, Carlo Dossi, Dosso Dossi e Fedor Michailovic Dostoevskij.

Due scrittori, un pittore, un genio. Che compagnia! Il capofila degli scrittori americani socialmente impegnati degli anni ’30, quegli scrittori che demitizzarono il sogno americano di benessere e libertà per tutti; un eccentrico scrittore italiano di fine ’800, tanto anticonformista in letteratura quanto reazionario in politica; un pittore rinascimentale piuttosto paganeggiante che passava con disinvoltura da sensuali “baccanali” a improbabili Madonne; e il genio, Dostoevskij, appunto.

L’assortimento induce a immaginare incontri e scontri appassionanti sulle questioni di sempre: persona e collettività, collettività e libertà, libertà e giustizia, giustizia e verità, verità e politica, politica e fede, …; la carne, la morte e il diavolo nella letteratura, nell’arte, nella politica, nella religione,…

Che dibattiti, che tavole rotonde! Dostoevskij-Dos Passos-Dossetti: “Promesse e delusioni del capitalismo e del socialismo”; Dosso Dossi-Dossetti: “Il corpo nella teologia di San Paolo e nella pittura di Tiziano”; Carlo Dossi-Dossetti: “L’anticonformismo in Italia tra destra e sinistra”; Dostoevskij-Dossetti: “Mistero, miracolo e autorità nella Chiesa dalle tentazioni di Gesù Cristo nel deserto al Concilio Vaticano II”…

 

Quei giovani e incorrotti cavalieri…

Per quanto consegnato alla storia, già “sepolto” nelle enciclopedie, Giuseppe Dossetti continua la sua esistenza terrena. Nella preghiera e nello studio.

E se non ci è data la fortuna di poter assistere alle discussioni di cui sopra, ci è stata data quella di poter partecipare con una trentina di altri amici a un incontro con lui dove si è parlato soprattutto di Concilio, Bibbia, Annuncio, ma anche di De Gasperi, Togliatti, Basso, la Costituzione, Pella,…  Già, chi era Pella?

Sono passati trentacinque anni da quando Dossetti abbandonò la politica, cessò anzitempo di essere uno dei leader più prestigiosi dell’Italia appena uscita dalla guerra e abbracciò la vita religiosa.

Quegli anni e quei personaggi sono ormai consegnati alla storia e noi li abbiamo conosciuti attraverso i libri.

Anche Dossetti abbiamo conosciuto attraverso i libri, come Dos Passos, come Dostoevskij.

Incontrarsi e parlare con lui è stato come cancellare per una mezza giornata le leggi del tempo. Una strana atmosfera, perciò, quasi di improbabilità, circondava l’incontro come se invece che Dossetti a parlar di politica ci fosse Dostoevskij a parlare di letteratura.

Tanto più che intorno alla figura di Dossetti, passata come una luminosissima meteora nel cielo politico italiano, si è andata creando in questi anni una sorta di mitologia: la mitologia che accompagna da sempre i giovani e incorrotti cavalieri che hanno giocato tutte le loro carte nel durissimo e fatale duello con il drago.

Dossetti aveva giocato le sue carte per un’Italia diversa: il regno di Dio in terra, diranno sarcasticamente certi suoi avversari di parte cattolica e laica. C’era una nazione da rifondare e i “dossettiani” la volevano non solo molto diversa da quella che c’era prima del fascismo, ma anche diversa da quelle che il panorama politico del momento offriva come modelli.

Un’occasione storica si presentava all’Italia per svincolarsi dall’alternativa mortificante: o comunismo o capitalismo.

Una volta sconfitto il modello sovietico non si doveva abbracciare quello americano, ma costruirne uno nuovo fondato sui valori della persona e della solidarietà sociale.

Per questo ci volevano strutture istituzionali ed economiche adeguate, non ideologiche ma nemmeno neutre.

La Costituzione era il primo passo, e qui i “dossettiani”, che erano chiamati “professorini”, ma che erano tutt’altro che degli “abatini” della politica, diedero un apporto decisivo sia nell’ispirazione di fondo sia nella formulazione di alcuni dei principali articoli.

Ma questo progetto di rifondazione originale dello Stato italiano era destinato ad arenarsi negli anni successivi soprattutto sul terreno delle politiche economiche

Il giovane e incorrotto cavaliere decise allora di uscire di scena. Aveva solo 38 anni, ma aveva avuto abbastanza tempo per diventare uno dei padri della Costituzione, uno dei leader politici più prestigiosi, il naturale successore di De Gasperi alla guida del maggior partito italiano.

Una delle migliori menti politiche del cattolicesimo di questo secolo.

Da quel lontano 1951, tranne una parentesi alle elezioni amministrative di Bologna del ’56, non si occupò più di politica, non ne volle più parlare. Cessò di essere il personaggio pubblico che era.

 

Che cosa vuol dire “piantar lì tutto”

Ma il drago non aveva bruciato il giovane cavaliere, gli aveva soltanto fatto cambiare strada. Dossetti cessò di essere un personaggio pubblico, ma non cessò di essere un protagonista, questa volta però in un ambito che non finisce mai sulle prime pagine dei giornali.

Fondò una comunità monastica, divisa tra l’Italia e la Palestina, e un prestigioso istituto di scienze religiose; diventò collaboratore del cardinale Lercaro a Bologna ed esperto al Concilio Vaticano II dove il suo apporto non fu secondario. Al centro della sua vita pose la lettura, lo studio e la meditazione della Bibbia.

La mitologia dossettiana non ha certo dovuto inventare molto per creare attorno a questo personaggio un fascino incredibile.

E poi, quella sua scelta di piantar lì tutto: cosa voleva dire?

Dossetti indicava ai cattolici italiani la strada per cominciare a ritrovare se stessi dopo le illusorie ricerche dei successi terreni che hanno finito per snaturare il senso dell’annuncio di cui dovrebbero prima di tutto essere fedeli testimoni?

Sembrerebbe di sì, ma lui, della sua scelta non vuole parlare più di tanto. Riflettendo sul “mistero dell’escatologia” durante un corso di esercizi spirituali promosso nel settembre del 1984 da alcune parrocchie di Reggio Emilia, don Dossetti diceva:

“Ecco quello che farà il Figlio dell’uomo: vincerà ogni nemico, sottometterà tutte le potenze diverse, tutti i principati: le gerarchie angeliche negative che si sono opposte sistematicamente al suo regno, facendo lotta a noi in tutta la nostra esistenza terrena, saranno vinte. E poi egli prenderà veramente tutto il suo regno e lo unirà in un’unità perfetta nella sottomissione dolce e soave al suo Re e, alla fine, presenterà questo regno al Padre e glielo sottometterà “perché Dio sia tutto in tutti”. Questa è una delle frasi vertice della Scrittura, con la quale ci è rivelato il senso finale di tutte le cose. Il regno di Dio starà nella sottomissione di tutte le cose a lui, Cristo…

Tutto ciò che vi è di personale nell’uomo sarà ultrapotenziato, esaltato. La personalità attuale di cui noi siamo così gelosi e avari custodi, non sarà altro che una pallida ombra di quella personalità raggiunta, un’ombra tanto più pallida quanta più ne saremo stati avari custodi, ma tanto più capaci invece di potenziarsi in tutta l’energia divina quanto più noi l’avremo ceduta a Dio che ce la restituirà, con l’originalità spettante a ciascheduno” (in “Sussidi Biblici. Rivista trimestrale della chiesa vescovile di San Lorenzo in Nebbiara – Reggio Emilia”, n. 8-9, settembre 1985, pp. 142-143).

 

Nel cenobio di San Vittore

Dunque, l’incontro.

Nell’antico cenobio di San Vittore, alla periferia di Bologna, si sono date appuntamento, accogliendo l’invito di Paolo Giuntella, una trentina di persone, in gran parte giovani, provenienti da tutta Italia.

Il primo giorno è venuto a parlare con loro il prof. Achille Ardigò che ancora una volta li ha sollecitati ad accettare da protagonisti la sfida della rivoluzione tecnologica in atto, che dall’informatica alla genetica sta prospettando all’umanità affascinanti ma anche inquietanti traguardi.

Troppi i ritardi della cultura cattolica, dice. Invece di stare a guardare o di commentare moralisticamente quello che sta accadendo, e che sta assomigliando sempre di più ad una radicale svolta dell’umanità, si deve essere dentro le grandi trasformazioni, accanto ai nuovi tecnici, ai nuovi scienziati, ricercatori, professionisti che non sono indifferenti ai risvolti etici e sociali di queste trasformazioni. L’obiettivo deve essere quello di un Nuovo Umanesimo.

Dossetti è atteso per il giorno dopo.

A rendere possibile l’incontro è stato il prof. Luigi Pedrazzi che di Dossetti è amico dal ’56. Dossetti, dice, celebrerà la Messa e forse si fermerà un momento. Non è più tanto giovane, ha passato i settanta, e le sue condizioni di salute non sono poi eccellenti. Il che non gli impedisce di alzarsi presto al mattino, com’è regola monastica.

Ma per voi, aggiunge Pedrazzi, ha accettato volentieri di celebrare la Messa più tardi, cioè alle sette e trenta. Che è quasi mezzogiorno per i monaci, ma ancor quasi mezzanotte per altri umani…

Sicché quando Dossetti arriva, alle sette, accompagnato da Pedrazzi e da Franco Pecci (un amico di battaglie culturali e politiche di Pedrazzi e anche un ex di Rossena, il piccolo centro del reggiano dove si svolse l’ultimo congresso dei dossettiani, quello che sancì la fine del gruppo), tutti sono ancora a letto. Ah, il rigore cattolico democratico!

Dossetti, a chi gli va ad aprire, riserva però un cortese “Mi dispiace di avervi svegliato”. Alto, affilato, incurvato, indossa il modestissimo saio della sua comunità religiosa.

Ha il viso disteso, sereno. Sorride volentieri, ma il suo assomiglia al sorriso di quegli antichi Padri della Chiesa tanto umili, semplici, miti, cordiali quanto austeri, fermi, inflessibili. Tutta quella lunga e curva figura esprime serena autorevolezza. Anche quando parla, con quella bella voce trasmette serenità ma anche durezza, mitezza ma anche intransigenza.

Dossetti si rivelerà così in quella mezza giornata: molto simile a quei Padri della Chiesa che sono per lui un obbligatorio punto di riferimento. Bibbia e Padri: queste le fonti della spiritualità cristiana, dirà all’omelia e lo ripeterà nella successiva conversazione.

Oggi si fa troppa esegesi biblica, dirà ancora, e troppi teologi sottovalutano l’insegnamento dei Padri. Ma la Parola é stata affidata alla Chiesa nei Padri.

 

Niente metafore, niente voli

Alla messa, Dossetti inviterà a prendere alla lettera la Parola che dice che il Regno di Dio arriverà improvvisamente. In ogni momento, ora, e non domani siamo chiamati a dar conto della nostra fedeltà.

La vita del cristiano è un’esistenza determinata dalla consapevolezza del ritorno, “ora”, del Signore. Non possiamo distrarci, essere superficiali. È già il tempo del Signore, dobbiamo ricordarcelo.

Il suo è un linguaggio preciso, pulito. Niente metafore, se non quelle tolte dalla Bibbia; niente voli, niente personalismi: solo un purissimo, lucido commento alla Parola (si sente anche il giurista abituato al rigore linguistico – concettuale).

E il suo modo di commentare la Bibbia è un po’ insolito per questi tempi dove si inserisce tutto nel contesto, si interpreta, si attualizza, si cerca di cogliere lo spirito più che la lettera della Parola.

E invece Dossetti coglie proprio la lettera. La lettera di una Parola che ieri come oggi è follia per il mondo, è un assurdo. Non ci sono inserimenti nel contesto che tengano, non ci sono ammorbidimenti: lo statuto del cristiano sarà folle, ma quello è.

Dopo messa, colazione. Quindi l’incontro-intervista. Dossetti non scappa. Si siede, vuole ascoltare.

È incuriosito da quei trenta che vengono da tutte le parti d’Italia e che fanno gli studi e i mestieri più disparati.

Continuate pure i vostri discorsi, dice, io ascolto. Ma, figuriamoci, sono i trenta insoliti ospiti dell’antico cenobio di San Vittore che vogliono ascoltare lui!

Le domande, lo si può immaginare, sono tante. Troppo poche, però, per gli “intervistatori” che vorrebbero da Dossetti un’opinione o un giudizio su… tutto: il Concilio, la Dc, Reagan, il Pci, Ratzinger, la teologia della liberazione, l’impegno in politica, il suo passato.

Ma il tempo è pur sempre quello che è.

Dossetti si sofferma volentieri sulle domande di natura religiosa e così quelli che invece vorrebbero sollecitarlo di più sul terreno politico sono accontentati solo in parte.

Eppure non sembra che gli dispiaccia parlare di politica, anche se si schermisce, dice di occuparsi ormai da troppo tempo di altre cose, di non essere informato, anche se il rispondere a queste domande gli costa fatica e lo si vede. Qualche battuta, allora; poi, quando si accorge che il discorso lo sta portando troppo in là, si ferma: “Basta così”.

Ma in quelle poche battute non è mai stato freddo, impassibile. Parole sempre pensate, misurate, ma mai rinnegate. Anche quei “basta così” devono costargli fatica.

De Gasperi? Un uomo onesto, lucido, preparato. Ma apparteneva a una generazione estranea alla sua. Da avversari politici come Togliatti e Basso con i quali lavorò intensamente attorno alla Costituzione dice di aver imparato moltissimo.

Di Sturzo, che pure sentiva appartenere a un’altra generazione, non condivideva l’acceso regionalismo. Il regionalismo, alla prova dei fatti, ha forse contribuito ad accentuare certi mali. Si capisce che Dossetti si sta riferendo non solo alla situazione meridionale, alla mafia, alla camorra, ai cronici problemi di tante regioni del Sud, dei quali il regionalismo voleva essere una salutare medicina dopo l’infelice esperienza del centralismo sabaudo e quindi di quello fascista, ma anche a ciò che succede nelle altre regioni italiane dove burocratizzazione e malgoverno sono andati crescendo riproponendo mali che si pensava appartenessero solo al governo centrale, allo Stato.

Con questa Costituzione non si governa, dice Dossetti, e lo si sapeva: adesso è evidente. Il leader che invitava i cattolici a non aver paura dello Stato non ha cambiato idea.

 

 

Il diavolo, probabilmente

Chi può essere oggi il demonio? Gli chiedono.

Lui risponde che non si può attribuire a nessuna persona o istituzione o organizzazione un carattere demoniaco, nel senso di poter essere identificata con “il” male. Comunque, non è il comunismo il demonio, non lo è neanche la Dc; no, neanche Reagan. Semmai, i “maligni” potrebbero essere taluni potenti centri di ricchezza.

Come devono comportarsi i cristiani in politica?

Il cristiano è un testimone della Parola; anche in politica deve essere testimone della Parola. Oltre le virtù morali tipiche dello statuto del cristiano, e per le quali basta l’insegnamento del Vangelo, è necessario, per chi opera in politica coltivare gli abiti morali attraverso la lettura dei libri sapienziali dell’Antico Testamento destinati appunto a governanti.

Sì, ci vogliono le competenze per operare nella realtà, ma il cristiano deve partire dalla Parola. E a ben vedere, dice Dossetti, certe esperienze dei cattolici in politica sono risultate deludenti più sul piano degli abiti morali che non su quello delle competenze. Dossetti insiste: è inutile sperare di operate da cristiani nel mondo senza alimentarsi costantemente della Parola.

E la sua scelta di abbandonare la politica per il sacerdozio, di lasciare l’azione per la contemplazione?

Non rinnego nulla del mio passato politico. Non è stata una fuga dal mondo, perché non si può fare una distinzione tra contemplazione e azione. Tale distinzione è platonica, non è cristiana. La nostra è sempre una contemplazione del crocifisso.

Gli chiedono: nei mesi scorsi c’è stata un po’ di polemica a proposito di presunti eredi del dossettismo identificati, a quanto sembra, da Fanfani (ex-dossettiano) nel movimento di Comunione e Liberazione. Lazzati (altro ex-dossettiano) è intervenuto contestando duramente questa tesi.

Che ne pensa? Che ne pensa di Comunione Liberazione?

Dossetti sorride, non ha nessuna intenzione di dar molto peso alla questione. Dice di non conoscere bene il movimento di C.L. se non per quello che coglie qua e là sfogliando “Avvenire”. Superficialmente può dire che non gli sembra ci sia dietro una solida e compiuta proposta. Ma, ripete, non ha elementi sufficienti per esprimere un giudizio.

E delle polemiche sul Concilio dopo l’intervista del cardinale Ratzinger? Il Vaticano II è stato solo un concilio pastorale, come vorrebbero quelli che tendono a ridimensionarlo? E la teologia della liberazione?

Dossetti risponde a lungo, in modo articolato, sempre lucidissimo, incisivo. Sono pochi in Italia quelli che possono vantare una maggior competenza di lui in questo campo. La sostanza del suo discorso, in breve, è questa: non gli interessano tanto le polemiche su questo o quel problema; non gli interessano molto le “questioni ecclesiali”. Il Vaticano II, però, non è stato un concilio pastorale, tutt’altro. È necessario distinguere tra norme prime e norme seconde: e tra le norme prime c’è la sacramentalità dell’episcopato, delle chiese locali.

 

Il vero problema della Chiesa è l’annuncio

La teologia della liberazione, poi, al di là di qualche discutibile ma marginale contributo teorico, è soprattutto cristianesimo vissuto.

Ma le vere questioni che la Chiesa ha davanti non sono queste: il primo problema della Chiesa oggi è l’annuncio di Gesù Cristo crocifisso. Un annuncio fedele e credibile. E da questo punto di vista, dice Dossetti, si dovrebbe guardare con più attenzione a quanto sta succedendo nell’immenso continente asiatico, più che all’America Latina.

In Asia si sta snaturando l’annuncio cristiano, si sta facendo troppo sincretismo, si accettano troppi elementi culturali e religiosi che non possono concordare con l’annuncio cristiano.

Dossetti è molto preoccupato di questo (la sua comunità religiosa è sempre stata attenta all’Oriente). In India i cristiani hanno finito talvolta per accettare perfino il sistema delle caste.

Come è possibile che il Cristiano non annunci l’eguaglianza? La religione cristiana è diversa dalle religioni orientali: questa diversità non può essere accantonata.

Stanno succedendo in Asia cose preoccupanti: i vescovi sono impreparati, le conferenze episcopali pure, e Roma non se ne rende ancora conto.

Il vero problema della Chiesa è l’annuncio, ripete Dossetti. Si sente che è un problema che gli sta a cuore.

Sì, Dossetti si può ancora infiammare parlando di politica, per quanto nella misura e con la classe proprie del calibro del personaggio. Il grande e rimpianto leader è intatto. E intatto è rimasto il suo fascino.

Ma la verità di Dossetti, di don Giuseppe Dossetti, oggi, è quella di un uomo conquistato, piegato, vinto dalla Parola. Questa riempie la sua vita. Il resto va in secondo piano.

Tutte le cose interessanti, anche importanti, di questo nostro incontro con lui, gli aneddoti, le curiosità potrebbero risultare fuorvianti se dimenticassimo l’essenziale, la verità dell’uomo e del monaco Dossetti: la sua passione per la Parola e per l’annuncio della Parola al mondo.

Una passione che non ha crepe, granitica. Una passione per la Parola cosi com’è, presa alla lettera.

C’è una durezza in questa adesione alla Parola che è del tutto fuori moda. E questo suo essere del tutto fuori moda fa accostare Dossetti ad un altro e diversissimo protagonista, don Milani: un altro strano “progressista”.

Anche lì c’era un guardare avanti, spesso più avanti di tutti, nella fedeltà assoluta, fuori del tempo e delle mode, alla Parola e a ciò che implica concretamente nella vita, in tutti i gesti quotidiani. Anche lì c’era col sorriso l’intransigenza dei Padri.

Questo il Dossetti che hanno ritrovato i trenta ospiti dell’antico cenobio di San Vittore.

Non un uomo consegnato alla storia. Ma un credente pienamente in campo, con tutte le sue forze, con tutto se stesso. “Si potrebbe dire, con un linguaggio banale, che se seguiamo Gesù e lui ci prende un dito, dopo ci prende un braccio, poi ci prende la spalla e poi ci prende tutto. E la sequela dev’essere così; non possiamo dire: ‘Adesso, Signore, basta’ “(Dossetti).

 

 

LA POLITICA, I CRISTIANI L’UTOPIA

PARLA DOSSETTI

di Vincenzo Passerini

(pubblicato su “Il Margine”, n. 1, 1987)

 

La Bibbia nella vita del cristiano e della Chiesa, il senso della profezia, il cristiano e la politica, la famiglia come luogo principale di formazione cristiana e civile, i limiti delle scuole di teologia e dell’attuale catechesi.

Sono questi i temi affrontati nell’incontro che il gruppo della “Rosa Bianca” ha avuto con don Giuseppe Dossetti a Bologna il 31 dicembre scorso (1986) al termine di una tre giorni di riflessione e dibattito che aveva visto anche gli interventi di Vittorio Prodi e Vincenzo Balzani (sulla questione nucleare), di Luigi Pedrazzi (sul suo recente viaggio in Russia con Achille Ardigò e Raniero La Valle), di Franco Pecci e Giorgio Tonini (sull’attuale momento politico), di Grazia Villa, Paolo Marangon, Lisa Xausa e Fulvio De Giorgi (sul “paradosso profetico” come orizzonte di ricerca per il gruppo della “Rosa Bianca”.)

L’incontro con don Dossetti (cui ha fatto riferimento anche Michele Nicoletti nell’articolo che ha aperto il precedente numero del “Margine”) ha fatto seguito a quello analogo svoltosi esattamente un anno prima [vedi l’articolo sopra: Dossetti, un uomo conquistato dalla Parola] e come quello è stato spiritualmente e culturalmente elettrizzante.

Dopo aver celebrato la messa e aver ampiamente commentato le letture del giorno (in modo particolare il grande prologo del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo…”), don Dossetti si è fermato in amichevole conversazione con i presenti e ha accettato di rispondere alle loro domande.

A queste ha sempre dato risposte chiare e precise e su scottanti questioni non ha nascosto il suo franco e spesso implacabile giudizio.

Riflessioni e giudizi che sono il frutto di un’intera vita dedicata prima alla politica e poi, totalmente, alla preghiera, allo studio della Bibbia e al rinnovamento ecclesiale; frutto di un’operosità profondissima e concreta in ciascuno di questi ambiti.

Pur avendo l’incontro il carattere di un’amichevole conversazione ci è parso importante trascriverne la registrazione e proporla ai lettori del “Margine” quasi integralmente, anche se con i necessari (e indebiti) aggiustamenti che una trascrizione impone. (V. P.)

 

 

 

D. In questi giorni abbiamo parlato di una spiritualità che sorregga l’agire politico; poi abbiamo dedicato un pomeriggio al problema nucleare. Però nella riflessione più teologico-spirituale era emerso un punto: il Concilio ha sottolineato il triplice munus di Gesù Cristo e poi della Chiesa popolo di Dio: regalità, sacerdozio, profezia. Nella “Lumen gentium” si parla di un sacerdozio comune e di un sacerdozio ministeriale. Possiamo parlare di una regalità comune e di una regalità ministeriale e forse anche di una profezia comune e di una profezia ministeriale? E poi, qual è l’ufficio profetico che tutti noi abbiamo in forza del battesimo?

R. Anzitutto dobbiamo dire una cosa: tutti abbiamo accesso alla parola di Dio e tutti, introducendoci in essa sempre di più, possiamo veramente conoscere tutta la verità. Riserveremo in ultimissima istanza al Magistero di dirimere controversie e dare l’interpretazione autentica ultima: però tutti hanno accesso alla parola del Signore.

E può darsi benissimo che a qualcuno il Signore faccia un dono di comprensione della Parola più straordinario, anche più profondo, più penetrante di quello che non faccia alla stessa gerarchia. Però il Magistero ha la riserva del discernimento dei carismi.

Su questa base è assolutamente necessario che la Scrittura divenga il libro del popolo di Dio. Non di qualche specialista.

Perché adesso il pericolo non è tanto nella contrapposizione tra laico e gerarchia nell’interpretazione della Parola, il pericolo è un altro: è che la gerarchia come il laicato siano esclusi dagli specialisti.

E invece gli specialisti non possono parlare della Parola altro che nella Chiesa, in comunione con tutta la Chiesa, col popolo del Signore nella sua interezza. Altrimenti diventa una scienza occulta.

Io credo che oggi ci debba essere una restituzione della Parola di Dio a tutti il popolo di Dio. È una delle restituzioni fondamentali che devono intervenire nel nostro tempo.

E quindi, chi poi si applica di più, chi la prega di più, chi la vive di più la interpreta anche meglio.

Bisogna dire che i vescovi devono essere i primi e che non può la Parola governare veramente, ispirare il senso profetico del popolo di Dio se i vescovi per primi non subordinano tutto il magistero alla Parola. E tutta la loro attività pastorale.

Purtroppo è vero anche che non solo nelle omelie correnti di tanti sacerdoti ma anche nelle omelie correnti di non pochi vescovi la Parola è estraniata o per lo meno se vi si fa un cenno è un cenno puramente occasionale, non diventa l’anima dell’omelia, l’anima del discorso, dell’insegnamento.

Questo è solo uno spicchio del problema, ma è quello più concreto in questo momento.

Naturalmente la vera profezia non è una profezia sganciata dalla Parola: non può essere. Ormai l’adempimento è avvenuto. Quindi, sì, c’è nel cammino della Chiesa, cammino che va illuminato, sempre. Anche nel Nuovo Testamento troviamo profeti. San Paolo dice che la Chiesa di Cristo è edificata sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e non intende solo i profeti dell’Antico ma anche del Nuovo Testamento.

Ma la profezia non può essere una profezia extra-Parola, essa è profezia interna alla Parola, quindi capace di dare alla Parola la sua attualizzazione a un tempo vera ed omogenea e insieme adeguata alla Chiesa del presente e del futuro. In questo senso si può parlare di profezia oggi.

 

D. Quest’estate a S. Gimignano abbiamo preso spunto dalle riflessioni di Lohfink che nel suo libro “Sogni sulla Chiesa” parla appunto del fatto che le profezie, il tempo delle profezie è già iniziato, ma che le profezie non si sono compiute e…

R. Ma le profezie fondamentali si sono adempiute, perché il Cristo è venuto. Cosa c’è di altrettanto fondamentale? Solo il suo ritorno. Le profezie che possono interessare il tempo della Chiesa si svolgono tra questi due termini: il Cristo già venuto, e quindi l’adempimento sostanziale, completo e, secondo e ultimo termine, il ritorno glorioso del Cristo. Ci può essere la necessità di un’attualizzazione, sempre entro il tempo della Chiesa, cioè entro questi due termini. Non c’è qualche cosa d’altro.

 

D. Stiamo riflettendo sul “paradosso profetico”; è anche per questo che ci interessa questo discorso sulla profezia. Però questa nostra riflessione tenta di muoversi in una dimensione propriamente politica. Il “paradosso profetico” ha il suo cuore nello scandalo della croce e nel mistero pasquale. Che cosa significa a partire dalla sua esperienza vivere il mistero pasquale in politica?

R. Oh, questo è un altro problema. Io però su questo rimando alle ultimissime pagine della mia introduzione al libro di don Gherardi Le querce di Monte Sole.

C’è un punto fondamentale secondo me.

I problemi che possono riguardare la politica, diciamo così in modo molto generico, secondo me non sono tanto problemi di contenuto, o comunque prima di essere problemi di contenuto sono problemi di formazione di abiti adeguati, i quali poi hanno già in sé un aspetto profetico.

E cioè: nell’attività politica prima di sapere qual è la soluzione dei diversi problemi bisogna capire bene quali abiti virtuosi bisogna acquisire per esercitare un’attività politica, e prima di tutto per conoscere i problemi che la politica pone a ogni situazione storica.

Non è un problema immediato di contenuti. C’è un passaggio prima che invece è stato saltato in tutte le esperienze politiche, specialmente nelle esperienze politiche degli ultimi cinquant’anni.

E questo passaggio non può essere colmato solo da dottrine tecnicamente affinate e appropriate.

Si tratta di costruire abiti politici virtuosi, i quali abiti politici fanno parte d’un genere ampio che io ho chiamato della sapienza pratica la quale, secondo me, è mancata anche perché non si è dato adeguato rilievo a una fonte biblica che può aiutare moltissimo e che anzi è la prima da consultare per la costruzione di questi abiti politici virtuosi. E cioè i libri sapienziali.

In questo noi siamo stati tutti, senza saperlo e senza volerlo, dei riformati, cioè abbiamo preso soltanto la Bibbia di Lutero, non abbiamo prese la Bibbia cattolica, nel senso più ampio, cioè la Bibbia che è anche la Bibbia della Chiesa d’Oriente, la quale comprende i libri sapienziali.

L’espunzione dei cosiddetti libri deuterocanonici ha mutilato la Bibbia, ha mutilato la riflessione su di essa e ha mutilato quella zona capace di costruire, in termini ancora prossimi alla Rivelazione, un complesso di abiti virtuosi d’ordine in qualche modo già prossimo al politico.

Questi sono i libri che più scendono nel concreto.

Se noi dobbiamo formare degli uomini, non dobbiamo dare solo il supremo contenuto del mistero, quella che potremmo chiamare la sapienza noetica, né dobbiamo dare solo delle dottrine politiche sia pure costruite in mode molto adeguato alla situazione del tempo, con uno sviluppo proporzionato delle scienze umane relative.

Dobbiamo cercare di cogliere quello che ci può venire da quella zona intermedia della sapienza pratica che è anche da costruire con l’esercizio, ma anche con certe indicazioni che sono ancora nell’ambito della Rivelazione.

Indicazioni che vanno poi esercitate, che non devono restare soltanto conoscenze astratte, di carattere nozionale, ma che devono essere capaci di costruire nel singolo, nel battezzato in particolare, quegli abiti virtuosi (ho indicato nella mia introduzione alle Querce di Monte Sole, molto sommariamente, quali possono essere) che inducono a rifuggire da certe cose e inclinare a certe altre.

È lì che deve esercitarsi, secondo me, anche l’abito profetico del cristiano più propriamente qualificato come tale e più propriamente qualificato come profetico: nell’esercizio di questi abiti virtuosi, di queste virtù che oggi non si costruiscono come non si sono costruite ieri.

È questo il terreno, secondo me, sul quale più si deve esercitare la riflessione di chi si mette per questo cammino. La riflessione e poi, si capisce, l’esercizio pratico.

Io temo che la grande complessità, quindi la grande tecnicità dei problemi economici, sociali, eccetera, porti subito a cercare di formare degli specialisti.

Io temo gli specialisti.

Non credo che, secondo il cristiano, lo sviluppo della verità in assoluto o l’esercizio di talune attività come quelle politiche debba essere affidato agli specialisti, esegeti e teologi da una parte o politologi ed economisti dall’altra. Li rispetto, so che sono necessari, indispensabili in un certo momento dell’iter formativo delle riflessioni e delle decisioni.

Come nella Chiesa io temo, temo molto i vescovi che si affidano ai loro teologi, secondo me con una fiducia indebita e con un’abdicazione ad una funzione che è loro propria, non dei teologi (i teologi si consultano ma il carisma è il vescovo che ce l’ha e se non lo esercita è colpa sua), così nella politica io temo i politici che si affidano ai loro specialisti.

Vanno consultati, tenuti vicino, tenuti sottobanco, tutto quello che volete ma, mutatis mutandis – perché è un’altra realtà e non ci sono le garanzie che ci possono essere nella chiesa per il carisma proprio di ogni funzione – secondo me, anche nella politica, a pochi anni di distanza, si vede che gli specialisti fanno prendere delle grandi cantonate.

L’attività politica non è un’attività da specialisti, è diversa: è un’attività sapienziale e richiede quindi, prima di tutto, degli abiti sapienziali propri.

Saranno proprio questi abiti sapienziali che orienteranno poi le scelte.

Come fa il politico a scegliere i suoi tecnici economici, come fa? S’affida al puro valore accademico? O s’affida al fatto che questi accademici sono del suo partito?

Secondo me sono criteri sbagliati. Si sbaglia già con la scelta. Il politico deve avere un fiuto, che è suo, e che è sapienziale. Non é mica semplicemente naso… Per ogni situazione dovrebbe capire chi gli può dare i consigli un pochino più vicini a quel suo disegno.

E lì bisogna ripensare tutto e si impone la costruzione di una sapienza adeguata che attinga alla Rivelazione nei suoi gradini più prossimi a questo tipo di esercizio, cioè ai libri sapienziali.

 

D. Si può essere cristiani senza essere monaci?

R. Oh, certo. Però: il monaco, che cosa è? È un semplice cristiano. E allora? Siamo d’accordo, certissimamente.

È una falsa opposizione. O per lo meno è una concezione riduttiva, l’ho detto a Sorrento. Non mi sono molto dilungato su questo tema e può darsi che sia nato qualche equivoco dal mio intervento così come è stato presentato dalla stampa, e in parte poi perché non potevo dire tutto con un’adeguata esplicitazione.

Ma la tesi di fondo era abbastanza chiara: l’essenza del monachesimo non sta nelle cose che si assumono normalmente come criteri per distinguere il monaco, l’essenza del monachesimo sta nella coerenza del vivere cristiano che naturalmente è favorita da certe condizioni estrinseche in cui il monaco vive, questo sì; ma non leghiamo troppo le due cose.

 

Alla destra di Dossetti Luigi Pedrazzi, alla sinistra Vincenzo Passerini e, seduto, Michele Nicoletti.

 

D. Quale dovrebbe essere il luogo della formazione di questi abiti sapienziali? E questa sapienza che deve informare la politica si esprime a livella di individuo o può avere delle espressioni collettive?

R. Rispondendo subito all’ultima domanda, credo che debba essere necessariamente collettiva. Si tratta di formare un clima. Tornando alla profezia, alla profezia classica, non è stata solo una profezia di singoli individui: era un carisma profetico di tutto il popolo di Israele. Nelle sue espressioni migliori, naturalmente, non nelle sue espressioni devianti. Carisma che poi poteva localizzarsi in particolari personalità o figure e che poi molte volte, invece, si localizzava in scuole.

Certo, fin che resta a livello individuale può avere delle alte espressioni, ma io credo che non avrà mai una sorte positiva notevole, eccetto qualche minoranza molto qualificata.

Dov’è il luogo? Io temo molto tutto ciò che si presenta oggi come scuola, in ogni ambito. Temo le scuole teologiche che secondo me non si sono neanche, neanche in principio, adeguate a quello che il Concilio voleva con la sua riforma dei seminari, delle scuole teologiche; anzi, si sono aggravati ulteriormente gli errori di formazione rendendo sempre tutto speculativo, astratto e avulso dalla vita. Non solo dalla vita di fuori, ma dalla vita del singolo o dei singoli o delle comunità che imparano.

Quindi non ho simpatia per le università teologiche. Così non ho simpatia per le università laiche. Ci credo poco. Vedo molto i vizi del mondo accademico, vizi così radicati che sradicarli è molto difficile. E quindi ancor più temo le scuole teologiche dal momento in cui hanno cercato sempre di più di mettersi sulla base di una pretesa, assurda concorrenza con le università laiche, di imitarne, modi, gesti, ecc. Non ci credo.

Credo invece, per le une e per le altre, che ci possano essere delle vere comunità che non si propongono titoli accademici, fini di diplomi, di diplomi timbrati che né fanno i dottori in teologia né fanno gli economisti veri, i politici veri, eccetera. Insegnano delle cose che sono necessarie, ma insieme a tante altre e ad abiti che non sono convenienti.

E qui il problema degli abiti di queste scuole è molto grave. Per esempio, insegnano l’emulazione, la competizione ad ogni costo e altre cose che non sono dei buoni insegnamenti.

E poi, alla base, credo che si debba fare una grande rimeditazione della famiglia, che è ancora di là da venire. La famiglia, poi, un tempo, anche senza idealizzazioni antistoriche, era la prima trasmettitrice di un certo genere di sapienza.

Io credo che la famiglia, qui ci ho pensato un pochino, la famiglia cristiana naturalmente, ha per quanto riguarda la fede una funzione mistagogica indispensabile e insostituibile. Nemmeno sostituibile dalla Chiesa e credo che la Chiesa faccia male ogni volta che supplisce troppo alla famiglia. E lo fa. Partendo dal concetto che la famiglia è carente, supplisce, supplisce, supplisce purtroppo quasi sempre e quasi dappertutto.

E questo è sbagliato, non corrisponde alla normale fisiologia dell’uomo e non corrisponde al carisma proprio dei genitori.

Io credo ai carismi propri: come credo al carisma del vescovo che, se vuole crederci lui, può fare veramente il pastore. Io credo così al sacramento del matrimonio e al carisma dei genitori per la prima fondamentale formazione alla fede.

Non credo alle scuole di catechismo, almeno in una certa misura, anche se so che il catechismo è stato in certe epoche e in certe regioni una cosa fondamentale. Ma ci crederei se venisse cambiato molto il sistema. Questo per la formazione alla fede. È accettabile che in una situazione come questa ci sia, anche qui, una supplenza, ma devono essere individuati nuovi modi.

Credo piuttosto a tutto un avvio diverso che parta dalla famiglia, dia una coscienza catechistica ai genitori da esercitare nella mistagogia elementare all’interno della famiglia e da esercitare poi, con una maggior maturità, in un esercizio catechistico a beneficio della parrocchia, a cui credo.

Adesso come è la situazione di molte scuole catechistiche? Sono dei bambini che insegnano ad altri bambini. Secondo me non è giusto.

Non credo, infine, alle scuole di teologia per laici che introducono tutti i difetti delle scuole teologiche accademiche e che danno sì una informazione ma creano più problemi di quanti ne risolvano. E ne ho prove continue. Potrei documentare questa mia sfiducia. Questo per la formazione alla fede.

Ma la famiglia deve esercitare le sue grandi responsabilità anche su alcune cose fondamentali che diano l’intuizione basilare del vivere civile. Naturalmente deve conoscere i suoi limiti; deve rifiutare, naturalmente, tutte le opposizioni a priori tra le generazioni.

Quando c’è una stoffa d’uomo così preparata, allora penso si debbano, o con l’iniziativa della famiglia o al di fuori di essa, formare delle comunità educative in cui questi problemi vengano affrontati su basi che non le contaminino con obiettivi immediati di carattere egoistico.

Mi riferisco in particolare a tutto quello che attiene alla formazione della carriera dove si distruggono, secondo me, le possibilità ultime di quegli abiti virtuosi che bisogna incominciare ad assumere qui per poterli poi trasferire nell’agire comune, civile e politico.

Può essere utopico, ma non lo credo.