Crescete in saggezza e follia. “Lettere e diari” di Emmanuel Mounier

Emmanuel Mounier

Nel maggio del 1944, Emmanuel Mounier scriveva a Daniel Villey: “Spero che il mio figlioccio cresca in saggezza e follia: in tutte due, mi raccomando”.

Saggezza e follia. La vita e l’opera di Mounier (1905 – 1950), uno dei padri del personalismo, corrente tra le più vive della cultura contemporanea, possono benissimo essere comprese tra questi due poli solo apparentemente contraddittori.

La saggezza del professore universitario, dell’uomo che conosce bene i suoi simili e il mondo, di colui che lavora con tenacia e pazienza a un grande progetto

bisogna intraprendere il rinnovamento umano e soprattutto cattolico a cui mirava Peguy”

e sa che nulla si improvvisa, nulla di veramente significativo si fa senza studio, impegno e una rigorosa disciplina interiore e di gruppo.

E la follia di colui che in una fredda mattina del dicembre 1930, alla domanda di un giovane avvocato, George Izard, che gli chiedeva: “Noi vorremmo fondare una rivista. Te la sentiresti di abbandonare tutto per venire a dirigerla? Non abbiamo un soldo”, risponde: “D’accordo, lascio tutto, abbandono la mia carriera universitaria”.

 

L’alto comandamento interiore

Il fascino di Mounier è in questo incontro-scontro di saggezza e follia. Uno strano connubio che fa di Mounier non tanto un personaggio, che personaggio non è, ma un uomo credibile ancor oggi.

È la sensazione che si prova leggendo il volume Lettere e diari di Emmanuel Mounier, edito nel febbraio di quest’anno da Città Armoniosa (pp. 526, £. 11.000, con bibliografia, note e un’utile “Notizia” di Giorgio Campanini) che dà al pubblico italiano la possibilità di scoprire un libro pubblicato in Francia fin dal 1954.

Un uomo credibile, che nella sua breve vita rimane fedele a se stesso, alla scelta di fondo fatta un giorno.”Fa ciò che devi, succeda quel che succeda”: il senso della sua vita è in questa massima che ricorda al padre in una bellissima lettera del ’43.

Se l’alto comandamento interiore è autentico, è capace di andare contro i calcoli, pure contro l’apparentemente impossibile…

 

“Abbiamo la totale povertà da cui nascono le opere”

E il grande progetto di rinnovamento che Mounier, Izard, Deléage vogliono intraprendere attraverso la rivista e il movimento “Esprit” ha davvero tutti i caratteri dell’ “apparentemente impossibile”. “Abbiamo la totale povertà da cui nascono le opere”, scrive Mounier a Izard.

Dopo due anni di studio, elaborazione culturale, dibattito ideologico, preparazione organizzativa, raccolta di fondi, “Esprit” nasce. È l’ottobre del 1932. La grande opera di rinnovamento “umano e soprattutto cattolico”, comincia, e i suoi risultati, che Mounier morto a soli 45 anni nel 1950 non potrà cogliere appieno, saranno non inferiori alle grandi speranze che ne avevano animato la nascita.

Il libro che qui presentiamo dà la possibilità di riscoprire attraverso lettere, frammenti e pagine di diario alcuni momenti e aspetti di questa straordinaria esperienza nata sotto il segno del rischio e dell’avventura, attuata con impensabile tenacia e fedeltà pur tra difficoltà, conflitti ideologici ideologici, incomprensioni.

 

 

“Io a testimoniare la luce”

 

Ricordiamo alcuni momenti salienti di questo “Diario”.

I rapporti tra il fiducioso e il perplesso con Maritain (“Parliamo a Maritain della rivista. La accoglie con la sua abituale carità”; e dopo qualche numero: “C’è anche la sensibilità di Maritain riguardo alle piccole distorsioni della verità, bestemmie sporadiche, eccetera, che si nascondono nel giro di una frase”);

quelli con Izard, responsabile del movimento politico “Terza Forza” nato da “Esprit”, con il quale verrà poi la rottura (“io a testimoniare la luce, tu a sollevare le folle”, scrive a Izard; e più tardi: “tutta la loro azione è rivolta al successo, la nostra alla testimonianza”, scrive di “Terza Forza”);

il conflitto tra azione e azione politica (“La storia insegna un po’ di umiltà. Ah, quale spazio minuscolo essa concede alla dimensione politica! I grandi cambiamenti della civiltà, i soli a lasciare un’orma si fanno con ben altra lentezza e perseveranza”; “L’opera immensa da realizzare comporta molteplici impegni tutti ugualmente validi. Io ho questa vocazione: lavoriamo con voi che riuscite a rendervi utili soprattutto nell’azione”);

i timori delle reazioni della gerarchia (“sono convinto sempre più che saremo un giorno condannati dalla chiesa”);

le perplessità in ordine al proprio ruolo (“un funzionario della rivoluzione spirituale?”);

la forte, matura formazione spirituale che traspare soprattutto in occasione del dramma personale e familiare per la morte della piccola figlia Francoise (“non si tratta di una disgrazia: siamo stati visitati da qualcuno molto grande. Così non ci siamo fatti delle prediche. Non restava che fare silenzio dinanzi a questo nuovo mistero che a poco a poco ci ha pervaso della sua gioia”);

i rapporti cercati e sofferti con i non credenti (“sì, anche voi siete il corpo di Cristo e se non conoscessi la vostra indulgente benevolenza penso che forse mi toccherebbe ripulire nell’aldilà le suole delle vostre scarpe”);

il rifiuto ostinato delle classificazioni di comodo (“rifiuti di essere un uomo ‘di destra’ come io ho sempre rifiutato di essere ‘di sinistra’ in quanto ho sempre voluto essere all’avanguardia”).

 

“Ma io credo nell’utopia”

E, ancora, la fedeltà a se stesso, alla propria scelta che riemerge intatta dopo vent’anni, in una lettera del novembre del 1949, pochi mesi prima della morte:

Ma io credo nell’utopia, non a quella che porta all’evasione ma a quella in cui si intende edificare con una volontà di ferro. Presto o tardi questa forza darà i suoi frutti. Non facciamoci intimorire dalle ironie cosiddette realiste.

È sempre il Mounier saggio e folle, quello che disse sì ad Izard in una fredda mattina del dicembre 1930 e che passò il resto della sua vita a lavorare solo e sempre per quel “sì”.

Di questo gli siamo ancora immensamente debitori.

 

Pubblicato sul mensile “Il Margine”, n. 8, 1981