Alberto Cairo, grande testimone di solidarietà, in Afghanistan dal 1989, racconta la situazione nel martoriato Paese a un anno dal ritorno dei Talebani al potere

Alberto Cairo

Alberto Cairo, fisioterapista, uno dei grandi testimoni di solidarietà con le vittime delle guerre, dal 1989 in Afghanistan, dove, con la Croce Rossa, cura feriti e disabili, ha raccontato su “la Repubblica” del  15 agosto 2022 qual è la situazione nel martoriato Paese a un anno dal ritorno al potere dei Talebani.

Ma a che servirebbe la sua testimonianza se poi chiudessimo gli occhi davanti agli afghani che fuggono e bussano alle nostre porte?

La destra italiana torna a fare campagna elettorale contro i profughi per guadagnare voti sulla paura dello straniero, sbandierando vergognosamente anche sedicenti valori cristiani.

 

“A Kabul un anno dopo.

La vita amara di Zorà affamata dai talebani”

di Alberto Cairo

“la Repubblica”, 15 agosto 2022

 

KABUL — Come si vive a Kabul oggi? Male. In primo luogo per il disastro economico. Gli aiuti internazionali sono in gran parte sospesi, i disoccupati tantissimi, il sistema bancario semi-paralizzato, tutto rincara, niente programmi di sviluppo.

Gli ospedali pubblici funzionano solo grazie alle organizzazioni che pagano stipendi e medicine (ben 33 quelli sostenuti dalla Croce Rossa Internazionale).

Scuola superiore negata alle ragazze, insegnamento in genere peggiorato, molti studenti abbandonano per mancanza di denaro.

La sicurezza delle strade è migliore, ma gli attentati continuano, gli sciiti primo bersaglio. La criminalità rimane alta, la severità dei controlli di polizia dipende spesso dall’etnia.

Il rapporto tra popolazione e regime è quello tra sudditi e monarca assoluto. L’etnia pashtun comanda, di diritti umani non si parla, le donne cancellate dalla vita pubblica.

Diverso nelle campagne, la tradizione è in linea con le idee talebane, nessun cambiamento.

Zorà, vedova, 35 anni, tre figli, una disabile grave. Manteneva la famiglia, cuoca tuttofare in una compagnia costruzioni.

Ad agosto la compagnia chiude, Zorà perde l’impiego.

Vive di lavoretti e di carità. Si corica e alza con un costante pensiero, trovare cibo. A diritti, sicurezza, istruzione non può permettersi di pensare. Quando fa buio, talvolta rovista nelle discariche.

Sharif, 45 anni, infermiere-anestesista, 6 figli, si considera fortunato. Lo stipendio è buono, risparmierebbe se non dovesse mantenere i fratelli disoccupati, ex-militari. Con i familiari, 26 persone in totale.

Si occupava di politica e società civile, scriveva online. Tutto finito. «Il governo precedente aveva grosse pecche, corrotto. Ma potevo criticare. Ora solo tacere».

Le figlie, escluse dalla scuola alla vigilia della maturità, non fanno che piangere. «Tiro avanti come un mulo bendato, pernon vedere e riflettere».

Dall’agosto 2021 incredulità, paura e smarrimento si sono susseguiti.

Quanti ho visto piangere, memori dei decreti talebani degli anni 90. Per mesi a chiedersi “e adesso?”, aspettando decreti e nuove regole. Ora i più sono rassegnati.

Mezzo Paese partirebbe, ma le frontiere sono chiuse.

Arrangiarsi. Ex-insegnanti o impiegati supplicano per un posto da addetti alle pulizie, altri fanno i tassisti o gli ambulanti. Maestre e bancarie licenziate aprono corsi per ragazze, diventano sarte o parrucchiere. Qualsiasi lavoro.

Gli afghani campioni di sopravvivenza e solidarietà. «Il mondo ci ha dimenticati», dicono. Prevedibile, con le nuove guerre e le crisi.

I sostenitori dei talebani naturalmente non mancano. Faruq, pashtun, contabile, non ha mai nascosto le sue simpatie. Dall’agosto scorso sembra cresciuto in altezza. Dice che il regime restituisce l’Afghanistan agli afghani, preserva tradizioni. È gentile con i colleghi che lo cercano per raccomandazioni, si rende utile. Ma lo temono.

Le organizzazioni umanitarie possono lavorare? Per fortuna sì, liberamente. È grazie a loro che denaro e aiuti arrivano.

Il mio lavoro con la Croce Rossa ha potuto continuare più intenso che mai, con un aumento dei pazienti assistiti pari al 25%.

Tra loro tanti talebani. In genere corretti ma mai amichevoli e incapaci di dire grazie.

Anche le piccole Ong riescono a operare. L’italiana Nove Onlus, ad esempio, fa miracoli in alcuni distretti di Kabul, aiutando ogni mese donne-capofamiglia povere (Zorà una di loro), e offrendo corsi di alfabetizzazione femminile, un progetto sorprendente visto che a richiederlo sono le autorità locali stesse.

Che può fare la comunità internazionale? Dialogare con il governo afghano. La diplomazia sa trovare il modo. Riprendere con gli aiuti, senza condizioni, ricordando che l’Afghanistan è la gente. Gente che di guerra e politica è stanca. Soffre da oltre 40 anni.

Sharif mi ha appena informato che Faruq e famiglia hanno lasciato il Paese, emigrano. Un segno non buono, commenta, se anche i pro-talebani se ne vogliono andare.