“Il Gomitolo di Vittorio Emanuele e Paolo Giuntella, che viene ripubblicato, è il libro del loro indissolubile legame al popolo di Dio. È il libro di una fedeltà, molto cara ai primi cristiani, quella di essere protagonisti di un viaggio.”
David Sassoli
«Il filo non è spezzato»
di David Sassoli
Prefazione a
Vittorio e Paolo Giuntella, Il gomitolo dell’alleluia. Di padre in figlio il filo della fede, nuova edizione a cura di Laura Rozza Giuntella, AVE, Roma 2009.
«“Mosè ricevette la Torah sul Sinai e la consegnò a Giosué, Giosué agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti agli uomini della Grande Sinagoga…”. Così il gomitolo comincia a dipanarsi.
Nel Capitolo dei Padri, punto fermo della tradizione ebraica, il vanto “di un maestro consiste nell’essere discepolo di un altro maestro che l’ha preceduto”, spiega Umberto Neri nell’introduzione al Midrash sull’Esodo. La catena è partita dal Sinai e tutti “i sapienti che sono sorti nelle varie generazioni hanno ricevuto al Sinai ciò che hanno detto” (Esodo).
Discepolo e maestro. Padre e figlio. Generazioni, insomma, che tentano di tenere insieme tradizione e parole nuove, intensità di visione e misura delle cose, pedagogia civile e fini ultimi.
Il Gomitolo di Vittorio Emanuele e Paolo Giuntella, che viene ripubblicato, è il libro del loro indissolubile legame al popolo di Dio. È il libro di una fedeltà, molto cara ai primi cristiani, quella di essere protagonisti di un viaggio.
E, come in ogni cammino, non ci si dimentica da dove si è partiti. Da dove il gomitolo ha cominciato a sbrogliarsi: dal Canto del Mare, il canto degli ebrei che sulla riva lodano Dio per averli fatti passare dalla schiavitù alla libertà.
Il concerto di libertà è il sottofondo delle pagine del Gomitolo. La libertà di guardare il mondo con occhi diversi, di proclamare la propria fede, di non essere più ai margini della storia, di assumersi la responsabilità, di lavorare sulle proprie debolezze. Mosè stava davanti a Dio e camminava con Dio senza disprezzare la materia. “Senza la materia il nostro slancio spirituale si smarrirebbe nel sogno o nell’angoscia”, scrive Emmanuel Mounier nel primo numero di “Esprit”.
Il giorno dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini – il 2 novembre 1975 – eravamo nella casa dei Giuntella a Capranica, nel viterbese, con un cenacolo di amici, a tirare le somme di una lettura comune del Personalismo.
La riflessione venne introdotta prendendo spunto dal libro di Loubet del Bayle, I non conformisti degli anni Trenta, ovvero l’avventura di giovani intellettuali francesi che fra le due guerre si erano interrogati sulla crisi… La crisi del sistema politico, l’assenza di spiritualità, il rapporto fra uomo e società contemporanea, la democrazia piegata e ancora non considerata “valore non negoziabile”. Trovammo molte coincidenze con l’attualità di allora, nel giorno in cui veniva ucciso un poeta.
“La verità non sta in un solo sogno, ma in tanti sogni”, scrive Pasolini nel Fiore delle Mille e una notte.
Ne venne fuori un cantiere, diremmo oggi, sull’uomo minacciato. Minacciato nella sua espressione personale e comunitaria.
Perché ho citato il cenacolo di Capranica?
Perché nel libro che viene ripubblicato, il riferimento all’esperienza incarnata è costante, e il richiamo allo “spirito degli anni Trenta” può essere una chiave per comprendere l’avventura cristiana di Giuntella padre e Giuntella figlio.
Allora i conti andavano fatti con l’individualismo e l’idealismo, nelle loro diverse forme. Varianti che ritroviamo oggi con altri nomi, altre spinte. Che ritroviamo oggi nell’epoca della società globalizzata, con l’uomo ancora umiliato e la comunità sbrindellata.
Noi viviamo confrontandoci con la crisi.
E la spiritualità, nella sua forza rivoluzionaria, alternativa – sembrano ammonirci Vittorio e Paolo – è un motore inesauribile per leggere i “segni dei tempi”.
“Voglio l’amore, non il sacrificio”, urla il profeta Osea. E Paolo, di rimando, a rincarare la dose: “Che il cristianesimo sia sentiero verso la felicità”.
Negli anni Settanta, il professor Giuntella era spesso invitato a tenere conferenze. Con i più grandi era severo, o almeno così si mostrava. Con noi più giovani era un nonno. Al liceo lo incontravo tutte le mattine quando accompagnava la figlia Francesca.
Una sera, con un gruppo di amici, andiamo ad ascoltarlo nei locali dei frati minori in via Merulana, a Roma. Erano anni terribili. Anni di piombo. Dei fascisti romani avevano fondato un gruppo che ci faceva rabbia, “Civiltà cristiana”. Perché continuare a mortificare la nostra fede?
Erano tempi di grandi dibattiti: c’era stato il convegno sui mali di Roma, dopo poco ci sarebbe stato quello della Cei su “Evangelizzazione e promozione umana”.
E sul tavolo i temi civili: il compromesso storico, la strategia dell’attenzione, il rinnovamento della DC… il mondo cattolico era chiamato ancora una volta ad essere protagonista del futuro.
Finisce di parlare il professor Giuntella, ed è la volta di Pietro Scoppola.
All’improvviso entrano in sala alcuni attivisti neofascisti. Schiamazzi. Urla. Il professor Giuntella li invita ad esporre le loro idee. Marchesini, capo di quel manipolo, attacca spiegando che i cristiani devono lottare per la rinascita della civiltà cristiana, che l’anticomunismo è il marchio della nuova epoca, che il dialogo è un modo per essere subalterni ai marxisti.
Finito di parlare, esce accompagnato dai suoi.
E lì, il professor Giuntella si arrabbia. L’abbiamo fatto parlare e non ascolta le nostre ragioni? L’abbiamo fatto parlare e non si ferma ad ascoltare cosa abbiamo da dire? “E poi, glielo ricordo: noi non vogliamo fondare alcuna civiltà e per la nostra fede siamo stati nelle catacombe e non abbiamo paura di tornarci!”.
Il professore all’inferno c’era già stato, internato in Polonia e Germania. E da quell’inferno – scrive ne Il nazismo e i lager, Studium, Roma 2008 – “si è tornati diversi da quel che si era prima”. “Tra gli assilli di chi è tornato dal lager vi è anche questo del significato escatologico dell’essere scampato lui e non gli altri”.
“Gioire con chi gioisce e piangere con chi piange”, raccomanda san Paolo ai Romani. In particolare, “avere gli stessi sentimenti gli uni per gli altri secondo Gesù”.
Il tema è quello della conversione. A “spizzichi e bocconi”, con un modo molto speciale di irrompere nella nostra vita, Paolo Giuntella ci scarica addosso precetti che mandavamo a memoria quando eravamo bambini. “Beati coloro che usano misericordia” (Matteo 5).
Se il pessimismo è peccato per la Chiesa, il mondo non piacerà mai ai cristiani. Se il criterio dell’amore è troppo alto, almeno ci si adegui ad un principio di reciprocità, “come volete che gli uomini facciano a voi, così voi fate a loro” (Luca 6). Per Paolo VI, “questa massima innesta l’universalità della norma di fratellanza nell’azione singola e concreta della moralità sociale” (1971).
Le “opere dimenticate” sono le opere di misericordia, via non sentimentale all’uguaglianza. La fame, la sete, l’esclusione, gli ammalati, i carcerati, i senza patria, i morti, questi gli ingredienti, scrive Paolo, della “profezia del Natale”.
È ancora il Canto del Mare ad indicarci un orizzonte nuovo: “Nel mondo a venire, invece, non ci sono angustie, non odio, non Satana, non l’angelo della morte, non schiavitù, non l’istinto cattivo”.
Da molti anni Paolo Giuntella scriveva novelle natalizie. Racconti di fantasia da distribuire prima di tutto agli amici. Alcuni sono stati pubblicati, altri sono ancora inediti.
Nel 2007 spedì via mail una poesia di Charles Péguy, conservata ancora nella posta elettronica da molti colleghi del Tg1. Era già malato, ma aveva fiducia. Si curava, ma aveva ben presente la gravità del male. Lavorava molto come avrebbe fatto fino agli ultimi giorni.
La poesia è un inno del cristiano che muore. “Gli uomini, non avendo potuto guarire dalla morte… hanno risolto, per essere felici, di non pensarvi mai”, sostiene l’acuto Pascal.
Paolo invece parlava spesso della morte, “della morte che non avrà l’ultima parola”.
Charles Péguy
L’amore non svanisce mai
«La morte non è niente,
io sono solo andato nella stanza accanto.
Io sono io.
Voi siete voi.
Ciò che ero per voi lo sono sempre.
Parlatemi come mi avete sempre parlato.
Non usate un tono diverso.
Non abbiate l’aria solenne o triste.
Continuate a ridere di ciò che ci faceva ridere insieme.
Sorridete, pensate a me, pregate per me.
Che il mio nome sia pronunciato in casa come lo è sempre stato.
Senza alcuna enfasi, senza alcuna ombra di tristezza.
La vita ha il significato di sempre.
Il filo non è spezzato.
Perché dovrei essere fuori dai vostri pensieri?
Semplicemente perché sono fuori dalla vostra vita?
Io non sono lontano, sono solo dall’altro lato del cammino.»
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Si ringrazia Laura Rozza Giuntella per averci messo a disposizione questo testo.
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