La lunga avventura di Luigi Pedrazzi

Luigi Pedrazzi, scomparso il 27 giugno 2017 a 89 anni (avrebbe compiuto i novanta il 24 settembre), è stato uno dei protagonisti di quella fucina bolognese di cultura politica che ha dato per mezzo secolo contributi decisivi al rinnovamento dell’Italia, dalla fondazione della rivista Il Mulino nel 1951, alla quale si aggiunse tre anni dopo l’omonima casa editrice, fino alla nascita dell’Ulivo di Romano Prodi nel 1995.

Per noi, che siamo di una generazione successiva, Gigi Pedrazzi è stato un maestro e un amico. Gli dobbiamo molto.

Ha accompagnato con passione e generosità tante esperienze del cattolicesimo democratico, compresi Il Margine e la Rosa Bianca.

Fu tramite lui che l’associazione Rosa Bianca, presieduta da Paolo Giuntella, poté incontrare per due intere e memorabili mattinate, nel capodanno del 1986 e in quello del 1987, don Giuseppe Dossetti, che era stato uno dei padri della Costituzione italiana e l’anima di sinistra della Democrazia Cristiana e che poi aveva scelto la via del sacerdozio e fondato una comunità monastica e un istituto di scienze religiose diventati, col Mulino, gli altri capisaldi della formidabile fucina bolognese.

Dossetti era stato poi il braccio destro dell’arcivescovodi Bologna, il cardinale Giacomo Lercaro, al Concilio Vaticano II e negli anni del post Concilio, e fecedell’evento conciliare uno dei pilastri della sua azione, prima appartata e infine nuovamente pubblica, di rinnovamento della chiesa e della società, arricchendo la fucina bolognese di nuove dimensioni e responsabilità.

Quanto abbia pesato la lezione di Dossetti anche nel percorso del Margine e della Rosa Bianca lo testimoniano le annate del Margine. E speriamo non solo queste.

 

Bologna, 31 dicembre 1986, cenobio di San Vittore. Don Giuseppe Dossetti incontra l’associazione Rosa Bianca. Al centro della foto, da sinistra: Luigi Pedrazzi, don Giuseppe Dossetti, Vincenzo Passerini e, alla sua sinistra seduto, Michele Nicoletti.

 

Gigi Pedrazzi è stato sempre vicinissimo a Dossetti.

Ciò che mi ha colpito di più di Dossetti è il suo grande realismo. Ho conosciuto uomini più dotti e colti di lui, e ne vedo tanti essere più potenti, per alcuni anni, sulla scena del mondo. Ma la potenza del suo realismo di giudizio è per me incomparabile.

Certo, il realismo di Dossetti ha un limite: è di un fedele cristiano che considera la fede una realtà, e non un’illusione. Se Dossetti si sbaglia in questo, tutto in lui è sbagliato: un errore generoso, una grande illusione.

Ma se la fede ebraico-cristiana è ammessa, almeno per ipotesi, l’intelligenza realistica di Dossetti non ha confronti nell’utilizzarla come criterio di orientamento: intellettuale, per capire situazioni e problemi; pratico, per valutare e progettare comportamenti.

Queste parole, illuminanti, di Pedrazzi, le possiamo trovare in uno dei suoi libri, Sette giorni a Sovere (Il Mulino, 2002, p.28), dove, nella prefazione, che è anche un magnifico ritratto del Pedrazzi dossettiano, Edmondo Berselli, esponente di primo primo piano della seconda generazione del Mulino e geniale interprete dell’Italia contemporanea, purtroppo prematuramente scomparso, così declina il realismo di Dossetti:

Realismo è una voce in sé equivoca. Applicata alla visione di Dossetti implica un sguardo non timoroso, sereno, il più possibile oggettivo.

Nasce da quel realismo il giudizio sul fascismo come controrivoluzione ‘postuma’ rispetto a una rivoluzione marxista che non si diede, nell’Italia prefascista; viene dal realismo l’idea della seconda guerra mondiale come ‘sciagura immane’, così come il tentativo di ricercare nella fase costituente una composizione politico-culturale che non si limitasse a comporre ideologie già largamente in obsolescenza.

È frutto del realismo dossettiano il rifiuto della cristallizzazione fra l’atlantismo e il blocco comunista, come pure l’exit dalla Democrazia cristiana, e poi l’impegno conciliare.

E infine verrebbe da dire che è proprio nello sguardo tagliente di questo realismo il rinnovarsi dell’impegno in tarda età a difesa della Costituzione, allorché la democrazia italiana vide l’irruzione di outsider politici e alleanze finalizzate al potere che gli sembravano l’esatta negazione dell’impianto culturale in cui aveva creduto e per cui si era impegnato ai tempi della Costituente (Sette giorni a Sovere, p. 10).

Pedrazzi, aggiunge Berselli, invece di fissare come altri il pensiero di Dossetti nelle categorie della profezia e di consegnarlo a una passato cui ritornare con nostalgia, magari alla luce dei fallimenti della politica presente

sembra aver fatto spontaneamente tesoro dell’intuizione di Albert Hirschman, secondo cui in ogni situazione c’è una riforma possibile, e comunque è possibile un’azione e un tentativo: e il suo possibilismo si è espresso certamente con una intensa fedeltà alle premesse, ma anche con una continua mobilitazione di risorse, individuali e comunitarie, per tentare qualche strada, per dischiudere potenzialità ancora intatte … [Pedrazzi] ha sempre trovato nell’urgenza del reale la necessità di moltiplicare imprese e iniziative, di spendersi, di moltiplicare se stesso.

 

Pubblicato dal Mulino nel 2002, “Sette giorni a Sovere” raccoglie gli interventi che Pedrazzi tenne alla “Settimana della pace”, uno dei corsi autogestiti di cultura politica e di formazione cristiana promossi a Sovere, in provincia di Bergamo, dalle parrocchie di Sammartini e Sant’Antonio alla Dozza di Bologna. La “Settimana della pace” si svolse dal 15 al 19 agosto 2001 ed ebbe come tema generale “Costituzione e Resistenza”. Al centro delle riflessioni l’insegnamento e la testimonianza di Giuseppe Dossetti.

 

Chi ha conosciuto Pedrazzi sa, in effetti, quanto infaticabile, creativo e generoso sia stato nelle sue risposte alle urgenze del reale, a partire dal mondo della scuola nel quale era professionalmente impegnato e al quale dedicò con grande passione studi, testi ed esperienze innovative.

E poi l’elenco è fitto. Dalla lunga avventura del Mulino, che lo ha visto attivamente presente e protagonista fino agli ultimi giorni,alla partecipazione con Dossetti nel ’56 alle elezioni comunali di Bologna.

Dalla fondazione negli anni ’70, con Ermanno Gorrieri, del quotidiano bolognese Il Foglio, di vita breve ma bastante ad alleggerirgli cospicuamente (una costante delle sue iniziative) l’ereditato patrimonio personale, alla partecipazione al movimento dei Cattolici per il no che nel 1974 si oppose all’abrogazione della legge sul divorzio.

Quindi la fondazione, con un gruppo di autorevoli esponenti cattolici,della Lega Democratica che fu un proseguimento e un ampliamento dell’azione politica dei Cattolici del no.

Dall’esperienza di vice-sindaco di Bologna nella prima metà degli anni ’90, primo cattolico e non comunista in quel ruolo, alla creazione del periodico Ginnasio con il suo obiettivo di formazione politica e collegamento di piccoli gruppi.

Dall’Ulivo di Prodi, esito da sempre agognato e per il quale molto si spese, alle scuole di formazione spirituale e politica organizzate a Sovere, nel bergamasco, dalle parrocchie di Sammartini e Sant’Antonio alla Dozza di Bologna (le sue parrocchie), ma anche alle scuole estive della Rosa Bianca che frequentò fino a due anni fa, fino a quando la salute glielo permise,con la curiosità di un giovane che sta cercando di capire cosa sta succedendo e cosa si potrebbe fare.

La sua vita è stata davvero una memorabile lezione di realismo profetico dossettiano.

Mai uomo di partito, per quarant’anni eternamente in movimento nel complicato e inquieto territorio politico che stava attorno alla sinistra democristiana, perennemente in ricerca di un rinnovamento ma anche di uno sbocco politico diverso, sempre inseguiti e mai raggiunti, Pedrazzi è stato per natura uomo del dialogo. Aiutato in questo da una strabordante dose di ironia e di simpatia per il mondo, per la vita, per gli esseri umani.

Ironia e simpatia che l’avevano sempre vinta di fronte a ogni difficoltà, e perfino tragicità, che il suo cristianesimo profondo e il suo sguardo dossettiano gli consentivano di guardare in faccia senza sconti e senza fughe.

 

Anni ’60, riunione del consiglio editoriale del Mulino. Da sinistra: Nicola Matteucci, Alfonso Prandi, Luigi Pedrazzi, Luigi Amirante, Giovanni Evangelisti.

 

Il Mulino nacque sulla scommessa, pensata da un gruppetto di giovani, per lo più ancora studenti, e inedita per l’Italia dei primi anni Cinquanta (se si esclude l’esperienza, per alcuni aspetti simile, se non nella genesi certamente in taluni orientamenti di fondo, già avviata da Adriano Olivetti con la rivista Comunità e le Edizioni di Comunità), di una impresa editoriale che vedesse intrecciarsi e dialogare la cultura cattolico democratica, quella socialista riformista e quella liberaldemocratica, con lo scopo di rinnovarle tutte e di aprirle a nuovi orizzonti di pensiero e di ricerca, soprattutto a quelli della sociologia e della politologia anglosassoni (ma non solo).

 

Un impasto culturale-politico, quello del Mulino, che si contrapponeva, certo, al fronte comunista, allora per lo più di impianto stalinista, e quanto mai forte a Bologna, ma comunque disponibile a confrontarsi anche con questo sui concreti progetti di trasformazione sociale che andavano nella direzione della giustizia e della democrazia, della libertà e della liberazione.

Sui princìpi filosofici, di visione del mondo e della natura umana, il dialogo aveva ancora ben poco spazio praticabile.

 

Il Corriere della sera del 25 aprile 2001 ricorda con un articolo di Ettore Botti i cinquant’anni del Mulino.

 

Era questo anche il senso dell’anticomunismo dossettiano: ai comunisti ci si contrappone inflessibilmente sui princìpi, anche guardando alle realizzazioni storiche e all’ateismo di Stato dello stalinismo imperante, ma con loro si compete, e ci si confronta anche, per vedere chi sa mettere in campo, in questa concreta situazione, i migliori progetti di giustizia sociale, di eguaglianza, di democrazia, di libertà, di pace.

Non l’anticomunismo, quindi, dei conservatori e tanto meno dei reazionari.

La società, per Dossetti e i dossettiani, va profondamente cambiata, nel senso di una democrazia sostanziale come anche la Costituzione in larga parte prevede, e attraverso un ruolo fondamentale dello Stato, pur nell’ambito di un sistema capitalistico che però non ha mai l’ultima parola, è sempre corretto e guidato da una visione solidaristica e non individualistica degli esseri umani e della organizzazione economica e sociale.

Nessun conservatorismo, dunque.

 

In questo volume, pubblicato dal Mulino nel 1996, sono raccolti scritti vari di Pedrazzi usciti tra il 1984 e il 1996. “Non immaginiamo affatto tavole rotonde televisive, ma un lavoro più modesto e diretto di informazione, analisi, rilfessione, valutazione, nel quale imparare a conoscere problemi e progetti di soluzione; se ce ne sono; o a trovarne di adeguati, se mancano” (L. Pedrazzi).

 

L’intuizione dialogica che nel 1951 era stata alla base del Mulino sarà, nella sostanza, anche alla base dell’Ulivo, con le inevitabili distinzioni, quasi mezzo secolo dopo, una volta finito il comunismo e finiti anche tutti i vecchi partiti.

Romano Prodi, d’altronde, nasce in quella fucina bolognese e ne diventa uno dei più autorevoli esponenti (sarà anche direttore della rivista Il Mulino).

Se l’Ulivo poté nascere e vincere in un momento difficilissimo della vita politica italiana, soprattutto per il fronte progressista, fu perché dietro a Prodi, e insieme alle sue personali qualità, non c’erano dei sondaggisti, degli esperti di pubblicità o dei padroni di reti televisive, ma c’era una cultura politica che aveva radici, anche dialogiche, solide e profonde (a più di vent’anni di distanza, quel che è rimasto di quelle radici è quel che tiene in piedi quel che è rimasto del progetto di un partito nuovo che unisca le diverse culture democratiche… siamo sempre lì).

Romano Prodi con l’Ulivo fu d’altronde l’unico leader progressista a sconfiggere, e per ben due volte, l’armata aziendal-televisivo-affaristica di Berlusconi.

Ma nel 1951 per mettere in campo l’inedita scommessa di una impresa fondata sul rapporto dialogico tra culture politiche che fino ad allora si erano combattute ci volevano personalità, per quanto giovani, predisposte naturalmente al dialogo.

Pedrazzi lo era, e infatti sarà del Mulino l’affidabile e indistruttibile collante.

Forse fu per questa sua caratteristica, unita al realismo creativo di cui parlava Berselli, che Dossetti lo volle al suo fianco nella sfortunata ma feconda avventura delle elezioni comunali di Bologna del 1956.

Com’è noto, l’arcivescovo Lercaro obbligò, le virgolette sono quasi di troppo, Dossetti, che si era ritirato dalla politica cinque anni prima per fondare una comunità dedita agli studi biblici e patristici, a tornare in campo e candidarsi alle elezioni comunali come capolista indipendente della lista della Democrazia Cristiana contro il popolarissimo sindaco comunista Giuseppe Dozza.

Nella città più rossa e stalinista d’Italia la scommessa era persa in partenza, ma Dossetti l’affrontò, pur nello scoramento per una scelta non voluta, con la consueta determinazione e visione riformatrice.

Riunì attorno a sé un gruppo di giovani e brillanti menti, da Achille Ardigò a Beniamino Andreatta, e andò anche alla redazione del Mulino a chiedere collaborazioni.

Dopo riunioni, discussioni, polemiche la redazione mise a disposizione di Dossetti un redattore, a sua scelta. Io sceglierei Pedrazzino”, disse Dossetti, come ricorda lo stesso Pedrazzi in alcune sue imperdibili pagine dossettiane nel già citato volume Sette giorni a Sovere.

 

Curato da Gianni Boselli e pubblicato da Diabasis nel 2009, il libro contiene il testo integrale del Libro bianco su Bologna del 1956 e saggi di Luigi Pedrazzi, Paolo Pombeni, Luigi Giorgi. “Non si deve essere nostalgici, né prigionieri dei ricordi, ma una consapevolezza attenta delle pagine già scritte con generosità e sapienza aiuta ad affrontare il presente” (L. Pedrazzi).

 

Il gruppo di giovani menti, coordinate da Ardigò, mise insieme un programma articolato e innovativo, chiamato “Libro bianco su Bologna”, fondato, tra l’altro, sulla partecipazione dei cittadini tramite la creazione dei consigli di quartiere, una novità assoluta per l’Italia (cfr. A. Ardigò, Giuseppe Dossetti e il Libro bianco su Bologna, Edizione Dehoniane, Bologna 2003 e il testo ).

Persero le elezioni, anche se la Dc ottenne il miglior risultato di sempre, ma le intuizioni migliori del programma dossettiano furono fatte proprie dal sindaco Dozza, cui non mancava certo l’intelligenza. La fucina bolognese cominciava a dare i suoi frutti politici, seppur in un modo a dir poco imprevedibile.

Pedrazzi entrò in consiglio comunale, dove Dossetti rimase solo due anni per poi tornare ai suoi studi e scegliere la via del sacerdozio.

Dopo quella consiliatura Pedrazzi non ebbe più ruoli politici fino agli anni Novanta quando accettò di fare,tra il ’90 e il ’95, il vicesindaco di Bologna, primo cattolico e non comunista in quel ruolo nella storia della sua città, in una giunta rossa guidata da Valter Vitali.

Un’esperienza difficile ma politicamente creativa, “quasi una preparazione al progetto dell’Ulivo” la definì Romano Prodi nella prolusione (altro importante ritratto di Pedrazzi, denso di riconoscenza personale e comunitaria) che tenne il 25 giugno del 2014 in occasione del conferimento a Pedrazzi dell’Archiginnasio d’Oro, massima onorificenza conferita dall’amministrazione comunale di Bologna.

E proprio nel 1990 fu Pedrazzi ad ospitare a Bologna nelle stanze del Mulino il consiglio nazionale della Rosa Bianca quando decidemmo di partecipare con Leoluca Orlando, Nando Dalla Chiesa, Diego Novelli e altri alla fondazione del Movimento La Rete.

Lui non era d’accordo: “I tempi non sono maturi” disse, al che qualcuno gli rispose: “I tempi non sono mai maturi, si fanno maturare”.

Non se la prese, ovviamente, era troppo simpatico, e poi lui aveva sempre sognato un soggetto politico nuovo, democratico e laico, che mettesse assieme le diverse anime della cultura democratica italiana.

 

“Resistenza cattolica”, pubblicato dal Mulino nel 2006, raccoglie scritti di Pedrazzi usciti tra il 2004 e il 2006, alcuni dei quali, bellissimi, su Dossetti. “La resistenza di cui parla Luigi Pedrazzi è un atteggiamento interiore: è il restare fermi sui principi in cui crediamo e sull’insegnamento delle grandi figure che li incarnano e li rinnovano…” (dalla quarta di copertina). Memoria che – è un punto fermo per Pedrazzi – nella fedeltà crea il nuovo, non ripete il vecchio.

 

La Rete, per quanto piccola, metteva assieme quelle anime per la prima volta nella storia del paese all’indomani della caduta del Muro di Berlino. Lui avrebbe voluto che questo processo avvenisse con maggior forza e coinvolgimento di altri. E la cosa avrebbe richiesto tempo.

Ma i tempi della politica spesso non rispondono alla logica del meglio, ma a quelle del possibile e del necessario, qui ed ora. E lui lo sapeva.

La questione morale premeva, il vecchio sistema politico agonizzava, strade nuove si imponevano. La Rete doveva nascere, svolgere il suo ruolo e morire. Una vita breve, anche precaria, ma bella e necessaria.

Pedrazzi ci fu comunque sempre vicino.

L’ultima battaglia culturale ed ecclesiale di Gigi Pedrazzi, per la quale volle vicino almeno nella fase di avvio anche Grazia Villa e chi scrive, insieme a Nicola Apano che gli fu costantemente di aiuto a Bologna, fu, a partire dal 2008, a cinquant’anni dall’elezione di papa Roncalli, una puntuale rivisitazione, che coinvolse centinaia di persone e decine di gruppi e comunità in tutta Italia, di quello che era stato detto e fatto durante il Concilio Vaticano secondo, perché quell’avvenimento di enorme portata per la Chiesa e il mondo intero tornasse a rianimare lo spirito pigro e sopito di tanti.

 

Il volume “Vaticano II in rete. Il nostro ’58”, uscito nel 2010 (coedizione Claudiana-Il Mulino), è il primo dei tre che documentano l’ultima battaglia culturale ed ecclesiale di Pedrazzi che coinvolse, in questa forte e originale riproposta dell’attualità del Concilio, persone, gruppi e parrocchie di tutta Italia.

 

Per quasi cinque anni – ha scritto Nicola Apano in un suo bel ricordo di Pedrazzi che si può trovare sul sito c3dem – una lettera corposa, mediamente di 15 pagine, raggiungeva ogni mese (compreso luglio e agosto) un indirizzario di alcune centinaia di persone in tutta Italia che si erano iscritte all’impresa dichiarandosi disponibili a fare festa al Concilio attraverso la ricezione delle lettere e la riflessione (anche in piccoli gruppi) sulle proposte di condivisione e di scambio che in esse Gigi offriva ai suoi interlocutori.

In quegli anni il pensiero della lettera mensile è stata la preoccupazione principale delle sue giornate, e delle sue notti perché di notte soprattutto leggeva e lavorava.

La lettera constava sempre di tre parti: una cronaca dei giorni del Concilio (della sua preparazione e poi dell’avvio della sua realizzazione), seguiti mese per mese, a distanza di cinquant’anni, una enucleazione delle tematiche principali che emergevano da quella cronaca e, infine, una terza parte in cui Gigi lanciava un suo sguardo sulla situazione politica italiana e internazionale sulla quale gli sembrava impossibile non pronunciarsi nel suo colloquio con gli interlocutori che lo seguivano ogni mese.

 

L’elezione al soglio pontificio di papa Francesco lo indusse a chiudere quella battaglia. “Adesso non ce n’è più bisogno”, disse, “con questo Papa il Concilio torna a rivivere davvero”..

I testi di questo suo ultimo, appassionante impegno, che testimonia quanto gli stesse a cuore la Chiesa, sono raccolti in tre volumi pubblicati congiuntamente dal Mulino e dall’editrice protestante Claudiana (Il nostro ’58, Conservare le tradizioni: poteva bastare?, Migliorare e cambiare: come e perché), cui si è aggiunto un quarto volume, curato dalla storica Sandra Mazzolini, che raccoglie, traduce e presenta gli schemi preparatori del Concilio, quelli respinti fin dall’inizio (Una lunga preparazione andata in fumo).

 

Il libro, pubblicato dal Mulino nel 1997 in occasione del 23° Congresso eucaristico nazionale che quell’anno si svolse a Bologna, ha la prefazione del sindaco della città, Valter Vitali. “Il Terzo Millennio che sopravviene mi pare possa e debba trovare i cristiani convinti di essere, tutti insieme alla sequela di Gesù, ancora una novità da mettere alla prova, con proposte adeguate al nostro orizzonte concreto e complesso” (L. Pedrazzi).

 

Pedrazzi era un uomo di fede cristiana profonda. Una fede presa sul serio.

Ci ha anche lasciato un bellissimo, impressionista, autoritratto spirituale, Il mio vissuto eucaristico (Il Mulino, 1997), steso nei mesi frenetici della preparazione del Congresso eucaristico di Bologna del settembre 1997 e proprio come reazione a quella frenesia organizzativa che stava trasformando l’evento spirituale in qualcosa di puramente materiale, e stava svuotando lui stesso di ciò che invece più gli stava a cuore.

Questa sua reazione, e questo suo scritto, testimoniano di come il cristiano Pedrazzi vivesse il rapporto tra vita cristiana e vita pubblica.

L’assidua frequentazione di Dossetti e della sua comunità, composta anche di sposi, l’aveva fatto inevitabilmente innamorare della Bibbia, dell’Antico e del Nuovo Testamento, letti e meditati quotidianamente, percorsi da cima a fondo.

Un’avventura spirituale e culturale che Dossetti ha sempre ritenuto indispensabile per ogni credente, a cominciare da quelli che vogliono impegnarsi in politica.

Senza di che, diceva, l’ispirazione cristiana è solo un fiato di vento.

Pedrazzi, come rivela il suo autoritratto spirituale, amava particolarmente i Salmi, e tra questi il 39:

Fammi conoscere, Signore, la mia fine, quale sia la misura dei miei giorni, e saprò quanto fragile io sono.

Visse questa fragilità con una letizia che ce lo rende indimenticabile.

 

Pubblicato sulla rivista Il Margine, n. 6, 2017.