Nessuno gridò: basta! Qualcuno gridò: ora basta! Don Milani e il primato della coscienza

Nell’estate del 2001 i fatti di Genova dimostrarono quanto il culto dell’obbedienza anche di fronte all’ordine disumano fosse ancora ben radicato nel nostro paese.

Quanto poca strada avevamo fatto sul fronte della maturazione delle coscienze, non solo rispetto ai crimini commessi dal nostro esercito durante le guerre coloniali e la seconda guerra mondiale, ma anche rispetto al grande dibattito che a partire dal 1965 aveva accompagnato la Lettera ai cappellani militari toscani e la Lettera ai giudici di don Lorenzo Milani.

 

Dal 20 al 22 luglio 2001 a Genova ci furono grandi assemblee e manifestazioni di no global e pacifisti, riuniti sotto lo slogan “un altro mondo è possibile” e la sigla del Genova Social Forum, contro il G8 (i leader dei paesi più ricchi) riunitosi nel capoluogo ligure, con il governo Berlusconi – Fini a fare gli onori di casa, fresco di nomina e animato da una irrefrenabile voglia di dare una lezione memorabile alla “sinistra” e di far vedere all’Italia e al mondo come le cose sarebbero cambiate.

Mentre gruppetti di estremisti violenti, i blackbloc, venivano lasciati distruggere indisturbati auto e vetrine nel centro storico, per utilizzare le immagini delle loro distruzioni quale rappresentazione di tutto il movimento no global presente a Genova (c’erano anche molte associazioni cattoliche), e così delegittimarlo (cosa in gran parte riuscita, grazie all’uso mirato che fu fatto delle tv, pubbliche e berlusconiane), le forze dell’ordine si accanivano sugli inermi manifestanti.

Irruppero nella scuola Diaz che ospitava il centro organizzativo del Genova Social Forume aggredirono i presenti: picchiarono selvaggiamente e perfino torturarono persone inermi, di tutte le età, uomini e donne, italiani e stranieri.

Più sistematiche e prolungate violenze ci furono nella caserma Bolzaneto dove vennero portati duecento pacifici manifestanti, non i violenti blackbloc, che non furono fermati, ma persone colpevoli di nulla.

Roberto Settembre, magistrato estensore della sentenza d’appello sui fatti di Bolzaneto, conclude così il suo libro Gridavano e piangevano. La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto (Einaudi, 2014):

A Bolzaneto nessun funzionario gridò ‘Basta!Basta!’ come fece alla Diaz G.N., uno degli uomini di Canterini [comandante del Primo reparto mobile di Roma], per interrompere la mattanza iniziata e conclusa in una manciata di minuti. A Bolzaneto per tre giorni (dal venerdì pomeriggio del 20 luglio al lunedì 23) quegli ‘ospiti indesiderati assolutamente innocenti’ vennero torturati senza soluzione di continuità, mentre l’unico esplicito dissenso venne dalla voce di un carabiniere, subito zittita, quando si accorse dell’immissione di gas in cella.

(p. 257).

Le coscienze di uomini e donne in divisa non si ribellarono di fronte agli ordini  disumani. Si inchinarono, obbedirono.

Eseguirono violenze e torture, con lo stesso spirito di obbedienza con cui migliaia di uomini in divisa, buoni giovani e ottimi padri di famiglia, avevano accettato di eseguire gli ordini disumani nelle stragi di civili in Etiopia nel ’36, o in Grecia e in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale.

Spirito di obbedienza contro il quale si era scagliato don Milani.

L’obbedienza, la sciagurata obbedienza continuava ad essere una virtù nel 2001 a Genova. Nessuno gridò “Basta!” e per tre giorni a Bolzaneto si picchiarono e torturarono inermi cittadini.

Dobbiamo ricordare questi fatti dell’Italia di oggi per non consegnare le battaglie di don Milani al passato e leggere le parole, lucide e implacabili, delle sue lettere ai cappellani militari e ai giudici, soltanto come un preludio alla legge sull’obiezione di coscienza.

Certo furono anche questo, ma se l’obiezione di coscienza venne finalmente accolta nell’ordinamento italiano e nella società italiana, grazie anche alla battaglia di don Milani, quello che invece non fu nella sostanza accolto, non divenne acquisizione diffusa fu il cuore della lezione di don Milani: il primato della coscienza, il primato della responsabilità personale di fronte al comando ingiusto e immorale, alla legge ingiusta e sbagliata, alla situazione inaccettabile.

La cultura della coscienza personale, della responsabilità personale non ha fatto grandi passi in avanti, nella Chiesa e nella società.

Ma è qui il cuore dell’insegnamento di don Milani:

Delle nostre azioni risponderemo noi davanti a Dio

(Lettera ai giudici, p. 53). Dobbiamo avere il coraggio di dire ai giovani

che bisogna che si sentano l’unico responsabile di tutto.

Il suo non è soggettivismo protestante. Don Milani si muove nell’ambito della tradizione dottrinale cattolica, e ci tiene a ribadirlo:

Mi sarà facile dimostrarvi che nella mia lettera ho parlato da cattolico integrale, anzi spesso da cattolico conservatore”

scrive ai giudici.

La dottrina del primato della coscienza sulla legge dello Stato, insiste, è dottrina ufficiale di tutta la Chiesa. E ricorda anche il Concilio di Trento:

Se le autorità politiche comanderanno qualcosa di iniquo non sono assolutamente da ascoltare.

Appunto:

Se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura.

(Lettera ai giudici, p. 59).

Nella Chiesa il primato della coscienza si esercita con la sincerità della parola, la schiettezza verso comportamenti ritenuti sbagliati, la coerenza del proprio comportamento mentre si muovono obiezioni a quello degli altri. Si obbedisce, ma si è sinceri e non si tace.

E di fronte al male non si obbedisce. Si è responsabili di tutto, anche nella Chiesa, e non ci si può coprire dietro i comandi e le consuetudini.

Così nella società, così nella politica.

È un’idea di persona, di cittadino, di cristiano quella che sta al cuore dell’insegnamento di don Milani. Il Vangelo di Cristo è un messaggio di liberazione e di responsabilizzazione personale. Cristo si rivolge alle singole persone: va’ e comportati così. Cosa fai, cosa credi? Cosa dici, come metti in pratica la parola?

Il mondo cattolico (l’idea stessa di “mondo cattolico” ha in sé qualcosa di pericoloso) ha coperto spesso le responsabilità personali dietro il gruppo, dietro l’appartenenza al partito, al movimento, alla corrente culturale o politica, alla chiesa o chiesuola, all’associazione.

Movimenti e associazioni sono importanti, ma possono essere un alibi che impedisce alle coscienze di allenarsi alla libertà, di esercitare coraggiosamente la libertà, di manifestarsi in tutta la loro forza critica e creativa, in tutto il peso della loro responsabilità che nessun “noi” può togliere loro o alleggerire.

La corruzione, ad esempio, è stata spesso giustificata in nome del servizio a una causa collettiva. Sono soldi per il partito, per il movimento, per l’opera buona, per la causa. Ma il male resta male, e del male che fai tu rispondi tu, nessun altro.

E anche del bene che non fai tu rispondi tu e nessun altro.

Anche dei tuoi silenzi complici, anche delle tue obbedienze rassicuranti ma corresponsabili di mali piccoli e grandi, a volte anche di azioni disumane.

Don Milani su questo è implacabile. Il suo è un appello al tu.

C’è un equivoco collettivista che accompagna la lezione di don Milani. La scrittura collettiva, la comunità scuola, la concezione comunitaria della Chiesa, la soluzione ai problemi da trovare insieme con la politica e non cercando la soluzione personale, la difesa collettiva dei diritti individuali tramite il sindacato, tutto questo, che è rilevante in don Milani, ha messo in secondo piano il suo appello al primato della responsabilità personale, al primato della coscienza.

Che non ha niente a che fare con l’individualismo, bestia nera del curato di Barbiana.

È invece un primato evangelico, innanzitutto. Un primato che lui ha testimoniato con la sua vita, con le sue scelte, lasciando il suo mondo di ricco e privilegiato perché la sua coscienza gli impediva di essere ricco e privilegiato e insieme al servizio dei poveri.

Cambia te stesso se vuoi cambiare il mondo.

Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza non è stato accompagnato dal riconoscimento del primato della coscienza nella vita di ciascuno e di ogni giorno.

A Bolzaneto è probabile che ci fossero diversi bravi cristiani e brave cristiane tra gli uomini e le donne in divisa che torturavano o assistevano alle torture.

E lo facevano senza che fossimo in un regime fascista, anche se la cultura fascista deve essere ancora ben presente, a quanto pare, nei luoghi dove si formano gli uomini e le donne in divisa.

È che crescendo, quegli uomini e quelle donne non hanno respirato molta cultura della coscienza personale, del dover rispondere personalmente del male che facciamo o lasciamo fare, obbedendo. Del dover personalmente rispondere davanti a Dio e all’umanità, leggi o non leggi, comandi o non comandi.

Non hanno respirato molta di questa cultura. Anzi, ne hanno respirato così poca che non ne avevano neanche un briciolo di fronte a disumanità così vergognose.

Bolzaneto è stata la spia di una cultura e di una società.

È partendo da questa amara constatazione che dobbiamo rileggere la lucida e coraggiosa lezione di Don Milani sul primato della coscienza.

 

Pubblicato sul mensile Il Margine, n. 4-5, 2017 – Numero monografico “Reinventare don Milani”