Quante orecchie, quanti morti?

«Quante orecchie deve avere un uomo prima di poter sentire la gente piangere? E quanti morti ci vorranno prima che egli sappia che troppi sono morti? E quante volte può voltare la testa fingendo di non vedere?».

Si canta Blowin’ in the Wind di Bob Dylan alla partenza della fiaccolata della pace che inaugura l’anno nuovo a Canal San Bovo, tra i monti della bella Valle del Vanoi.

Ci sono i giovani della parrocchia, le associazioni di volontariato, il coro, i rappresentanti delle istituzioni e tante altre persone.

Bisogna sconfiggere l’inverno del cuore, prima di quello meteorologico.

Bisogna sciogliere il ghiaccio interiore.

E Dio solo sa quanto è spesso questo ghiaccio.

La prima tappa è dedicata ai minori in difficoltà; la seconda agli anziani della casa di riposo; la terza ai profughi.

Ai profughi della prima guerra mondiale, costretti a lasciare il Vanoi per essere trasferiti in Austria o in Italia; ai profughi di oggi che arrivano da noi.

 

Il grande cerchio attorno al fuoco

 

Alla marcia partecipano anche una decina di donne profughe provenienti dalla Nigeria e dalla Costa d’Avorio e accolte in queste settimane in valle.

Prima di entrare in teatro i partecipanti fanno un grande cerchio attorno al fuoco. Una donna nigeriana e una ivoriana prendono la parola. La prima in inglese, la seconda in francese. L’operatrice che le accompagna traduce, dopo averle presentate.

«Grazie per averci dato ospitalità ‒ dicono ‒. Grazie, e scusate per il disturbo. Non siamo venute con cattive intenzioni, siamo arrivate dopo un lungo e doloroso viaggio e vorremmo chiedervi di aiutarci a ricostruire la nostra vita. Adesso dobbiamo imparare bene l’italiano e poi magari trovare un lavoro. Grazie per quello che potrete fare per noi».

C’è qualcosa di molto antico, di primordiale, in queste persone in cerchio che nella notte, attorno al fuoco, ascoltano delle ospiti venute da lontano che chiedono di essere accolte.

Sembra un rito di accoglienza che ha accompagnato tante migrazioni di popoli lungo i millenni della storia umana. Ma forse è la prima volta che l’Africa si presenta al Vanoi in questo modo.

 

Noi siamo andati in Africa con fucili e cannoni

 

Queste donne africane che, con il loro fardello di sofferenza e violenza che non riescono a comunicare, chiedono in punta di piedi di essere accolte e si scusano del disturbo che ci recano mi fanno però venire in mente, anche, che noi, noi europei, noi occidentali, noi italiani non ci siamo presentati in Africa così.

Noi ci siamo presentati agli africani con arroganza e prepotenza. Coi fucili e coi cannoni.

Abbiamo preso le loro terre, arraffato le loro ricchezze, ucciso chi si opponeva, catturato i loro giovani e poi caricati su navi e portati a fare gli schiavi. Ne abbiamo distrutto così generazioni su generazioni, lasciando negli africani una traccia indelebile di violenza e umiliazione della quale vergognarci in eterno.

Parole semplici, quelle delle donne africane, ma pesanti come macigni.

Macigni gettati sul ghiaccio non solo della nostra memoria, ma dei nostri cuori. Ma almeno tanti cuori si aprono.

 

Questa è la rivoluzione, questa è l’utopia

 

Penso infatti che è bello vedere a Canal San Bovo, e in molti altri luoghi della nostra provincia, questo Trentino che resiste.

Che resiste all’inverno degli animi per cantare con un lume in mano le ragioni del dolore altrui che ci chiede di non voltare la testa. E di dare un mano, come il Samaritano, alla persona ferita che trovi lungo la tua strada («Quante strade deve percorrere un uomo prima che lo si possa chiamare uomo?», altro verso di Blowin’ in the Wind).

Perché è qui che si cambia il mondo, è qui che si fa la rivoluzione, quella della giustizia, quella della pace. Non ci sono delusioni che tengano, né fallimenti di utopie o di speranze.

Questa è l’utopia, questa è la speranza.

 

Quanti morti ci vorranno?

 

Ci sono qui, davanti a noi, in questa fredda sera d’inverno attorno al fuoco, dieci persone che vengono da lontano, che hanno perso tutto e che hanno bisogno del nostro aiuto per ricostruire la loro vita. È rispondendo a loro, in concreto, che si costruisce la giustizia e la pace. Così si cambia il mondo.

È qui che possiamo riscattare con un briciolo di umanità quell’umanità che è andata perduta lasciando affogare nel Mediterraneo 3.700 profughi nell’anno che ci siamo lasciati alle spalle.

È qui che possiamo trasformare in nuova vita l’orrore e il dolore per i bambini che continuano ogni giorno ad affogare.

È qui, adesso, con queste persone vive che la notizia che ci commuove diventa carne, che l’inchiostro che ci fa sognare si fa sangue, che Blowin’ in the Wind smette di essere nostalgia e sentimento e diventa presente, vita vera.

«Quante orecchie deve avere un uomo prima di sentire la gente piangere? E quanti morti ci vorranno prima che egli sappia che troppi sono morti?».

 

Pubblicato sul quotidiano «l’Adige», il 7 gennaio 2016