“La storia di quel salvataggio passò di bocca in bocca. Da un migrante all’altro. Così come il mio numero di telefono. Ce l’avevano tutti. Eritrei, etiopi, somali, sudanesi… Scritto su un pezzo di carta, su un vestito, tatuato sulla pelle o scarabocchiato sul palmo della mano. Impresso nella memoria. Da quel giorno, se si trovavano in pericolo su un barcone, in mare aperto, alla deriva, mi chiamavano per chiedere soccorso. Io comunicavo subito la loro posizione alla Marina militare e alla Guardia costiera, che inviavano le loro motovedette. In questo modo si salvavano vite umane e si evitavano stragi e tragedie dolorose.” (Mussie Zerai)
Storia (grande) di don Mussie Zerai, simbolo dei “samaritani” del Mediterraneo, scagionato dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina
di Vincenzo Passerini
3 giugno 2022
Don Mussie Zerai salvava i migranti, non favoriva l’immigrazione clandestina. La procura di Trapani ha impiegato 57 mesi per informare il sacerdote scalabriniano, il 26 maggio 2022, che l’accusa contro di lui era caduta. Il decreto di archiviazione è del dicembre 2021, ma è stato notificato solo adesso al suo legale. Sono i tempi strani e inquietanti della giustizia (vedi Paolo Lambruschi, “Cinque anni di indagini e menzogne: cadono tutte le accuse per don Zerai”, “Avvenire”, 27 maggio 2022).
Ma almeno giustizia è stata fatta da quel lontano e infelice 9 agosto 2017 quando don Zerai ricevette l’avviso di garanzia nell’ambito dell’inchiesta sulla Ong tedesca “Jugend Rettet”.
Forse nessuno come don Zerai ha salvato così tante vite di migranti naufraghi nel Mediterraneo, o torturati in una prigione libica, o prigionieri nel deserto, o arrivati in Italia senza niente e nessuno.
Si era fatto, così, anche tanti e potenti nemici, in Eritrea, sua patria d’origine (a partire dal dittatore Isaias Afewerki), e in Italia (gruppi e giornali di destra, bande neofasciste, emissari del dittatore eritreo, trafficanti di esseri umani), che hanno provato a zittirlo. Le minacce anche gravi nei suoi confronti sono state continue. Ma la sua battaglia per i profughi non si è mai fermata.
Don Zerai è stato candidato anche al premio Nobel per la pace nel 2015 per la sua straordinaria opera di salvataggio dei migranti.
Il giovane Mosè fugge dalla dittaura eritrea e arriva profugo a Roma
Nato nel 1975 in una famiglia cattolica ad Asmara, capitale dell’Eritrea, figlio di un ingegnere incarcerato dal regime di Afewerki, Mussie (Mosè) Zerai arriva da solo profugo in Italia a sedici anni.
Condivide la vita e le fatiche dei profughi che affollano la capitale, vendendo i quotidiani per strada, facendo i lavori più pesanti e precari, tra razzismo e sfruttamento. Sperimentando anche la solidarietà.
Nel frattempo comincia a collaborare con parrocchie e associazioni che aiutano i migranti. La conoscena della lingua italiana imparata in Eritrea lo aiuta.
Ecco come descrive nella sua autobiografia (bellissima, un pezzo di storia dei profughi in Italia) la scoperta dell’universo dolente e multicolore dei profughi a Roma in quei primi anni ’90:
“Un destino comune fatto di guerre, fame, povertà, violenze, ingiustizie, privazioni di ogni genere. Romeni che cercavano fortuna altrove, dopo la caduta di Nicolae Ceausescu, fucilato assieme alla moglie Elena il 25 dicembre 1989. Erano, in maggioranza, giovani con un alto livello di istruzione, diplomati ma anche tanti laureati, che arrivati in Italia si sono dovuti accontentare di un lavoro qualsiasi per sopavvivere.
Albanesi, anche loro usciti da una dittatura, quella stalinista di Enver Hoxha, spinti fuori dal paese dalla miseria.
Rifugiati provenienti dalla penisola balcanica, lacerata dai conflitti legati all’assestamento della ex Jugoslavia, dal Kosovo alla Bosnia.
Polacchi che, con la fine della cortina di ferro, cominciarono a emigrare per motivi di lavoro.
Senegalesi, affamati dalla crisi alimentare e dalla desertificazione della loro terra. Marocchini, in cerca di un’occupazione, divenuti tristemente noti come i ‘vu cumprà’. Tunisini, soprattutto pescatori, sbarcati negli anni a Mazara del Vallo, la città siciliana dalla flotta di pescherecci bisognosa di mano d’opera straniera.
E ancora somali, congolesi, eritrei, etiopi costretti a migrazioni forzate da uno stato i conflitto a un altro in grado di offrire rifugio.
Filippini, strangolati dalla povertà, dall’instabilità politica e dalle calamità naturali, finiti badanti o collaboratori domestici nelle case di milioni di italiani. Indiani e cingalesi, abili nel commercio, che facevano da ‘teste di ponte’ per l’arrivo in Europa di parenti e amici.” (Dall’autobiografia scritta da Mussie Zerai con Giuseppe Carrisi, Padre Mosè. Nel viaggio della disperazione il suo numero di telefono è l’ultima speranza, Giunti, Firenze 2017, pp. 103-104- link editore).
Roma era diventata un dormitorio a cielo aperto. “Dalla Romanina alla Collatina, sobborghi di emarginazione, sorsero delle vere e proprie baraccopoli che accoglievano un esercito di disperati. Capannoni dismessi trasformati in città di cartone e lamiere, con strade e piccole stanze, dove ogni notte andavano a dormire nove o dieci persone. Li vedevo sdraiati per terra, coperti da sacchi di plastica e fogli di giornale. Senza riscaldamento, elettricità né acqua. Come animali.” (p. 125)
Mosé entra nell’ordine religioso degli Scalabriniani dedito ai migranti
Nel novembre del 1997 assiste in televisione alla beatificazione da parte di papa Wojtyla di Giovanni Battista Scalabrini, il “padre dei migranti”, vescovo di Piacenza dal 1876 al 1905 e fondatore delle congregazioni dei Missionari e delle Missionarie di San Carlo Borromeo (detti/e Scalabriniani/e) dedite ai migranti italiani che cercavano in massa una vita migliore in America (proprio nei giorni scorsi, il 22 maggio, è arrivato l’annuncio che Scalabrini sarà presto proclamato santo).
Incuriosito da quella figura, il giovane Mosè si mette a leggere libri sulla vita del beato. Lo colpisce in particolare il racconto della “scoperta” degli emigranti da parte di Scalabrini:
“In Milano, parecchi anni or sono, fui spettatore di una scena che lasciò nell’anima un’impressione di tristezza profonda. Di passaggio alla stazione vidi la vasta sala, i portici laterali e la piazza adiacente invasi da tre o quattro centinaia di individui poveramente vestiti, divisi in gruppi diversi … Sulle loro facce abbronzate dal sole, solcate dalle rughe precoci che suole imprimervi la privazione, traspariva il tumulto degli affetti che agitavano in quel momento il loro cuore. Erano vecchi curvati dall’età e dalle fatiche, uomini nel fiore della virilità, donne che si traevano dietro o portavano in collo i loro bambini, fanciulli e giovanette tutti affratellati da un solo pensiero, tutti indirizzati ad una meta comune. Erano emigranti.” (citato in Padre Mosé, p. 130).
Mussie, nei primi giorni del 2000, decide di farsi sacerdote. Dice ai suoi amici: “Voglio essere il prete dei migranti”. E in estate entra nel seminario dei padri Scalabriniani a Piacenza. Dopo tre anni di noviziato torna a Roma per gli studi di Teologia e Morale sociale all’Università Urbaniana.
Studia teologia e si immerge nelle periferie e nelle baraccopoli della Città Eterna dove vivono nello squallore migliaia di migranti
Mentre studia teologia a Roma, Mussie ritorna nelle periferie e negli angoli della capitale popolati da tanti migranti, tra cui anche molti suoi connazionali, per rendersi conto delle condizioni in cui vivono e cercare di aiutarli. Non può restare solo sui libri. La teologia si impara anche in strada tra gli esclusi. Soprattutto con loro.
Ecco alcuni luoghi della Città Eterna dove vive una umanità dolente e dove lo studente Mussie, come racconta, si immerge per ascoltare a aiutare le persone:
il “Casilino 900”, il “più grande campo rom d’Italia e forse d’Europa”, una vera e propria favela, “un ammasso di baracche, lamiere, cartoni, ferraglia, fango e sterpaglie in cui oltre millecinquecento persone vivevano nel degrado più totale”;
“stessa situazione nella zona Tiburtina, “dove centinaia di profughi eritrei, etiopi, somali e sudanesi si erano creati un loro villaggio negli ex magazzini ferroviari”, tutto autogestito dagli immigrati, “pochi bagni per tanta gente, in media uno ogni trenta persone, senza allacci fognari e con l’acqua per lavarsi scaldata sui fornelli”;
nella zona degli Acquedotti, sull’Appia antica, e nella zona dell’Ardeatina, “giovani romeni e clochard italiani affollavano baracche fatiscenti degne di uno slum africano”;
intorno alla stazione Ostiense “era sorta una tendopoli chiamata la ‘Kabul romana’ o ‘la buca’, abitata soprattutto da afghani, ma ci trovavi anche polacchi, romeni, ucraini e arabi”… (Padre Mosè, pp. 164-165).
E via di questo passo.
Mussie scopre e denuncia la disumanità dei lager libici finanziati dall’Italia e dall’Europa
Mussie scopre i lager libici aiutando il giornalista Gabriele Del Grande, che fu tra i primi a documentare quella disumana vergogna, a tradurre alcune terrificanti testimonianze di giovani eritrei scappati dalla dittatura di Afewerki e finiti nei famigerati centri di detenzione in Libia. Storie di barbarie, ricatti, torture. E morte.
Da quel momento per Mussie la vergogna dei lager libici diventerà il cuore di una costante e implacabile denuncia pubblica che gli creerà anche potenti nemici.
Denuncia i finaziamenti a Gheddafi da parte dell’Italia e dell’Europa perché fermi in tutti i modi i migranti. Scrive don Zerai: “Lo sapevano tutti che Tripoli non aveva firmato le convenzioni internazionali per il rispetto dei diritti umani e, in particolare, di quelli dei rifugiati e dei migranti. Ma non interessava a nessuno. Ciò che contava, per l’Europa, era che quella frontiera restasse sbarrata. E fare affari. Non importava come e a che prezzo” (p. 174)
I profughi lo chiamano al cellulare dai barconi in pericolo
Il 10 marzo 2004, alle tre di notte, riceve una telefonata da parte di un amico prete eritero che vive a Napoli e che gli dice di essere stato chiamato da due suoi fratelli che insieme ad altri migranti sono a bordo di un barcone che rischia di naufragare nel canale di Sicilia. Mussie gli dice di dare loro il suo numero e che lo chiamino. Lo chiamano. Riesce a farsi dare le coordinate dell’imbarcazione. Poi la telefonata si interrompe.
Mussie chiama la Guardia costiera, la informa dell’accaduto e dà a loro le coordinate. Due motovedette partono, riescono ad agganciare il barcone alla deriva e a trascinarlo a Lampedusa. Ne scendono 130 migranti, tutti eritrei, stipati ovunque, tra cui tre bambini e due donne. Tutti salvati.
Scrive don Zerai:
“La storia di quel salvataggio passò di bocca in bocca. Da un migrante all’altro. Così come il mio numero di telefono. Ce lo avevavno tutti. Eritrei, etiopi, somali, sudanesi… Scritto su un pezzo di carta, su un vestito, tatuato sulla pelle o scarabocchiato sul palmo della mano. Impresso nella memoria. Da quel giorno, se si trovano in pericolo su un barcone, in mare aperto, alla deriva, mi chiamavano per chiedere soccorso. Io comunicavo subito la loro posizione alla Marina militare e alla Guardia costiera, che inviavano le loro motovedette. In questo modo si salvavano vite umane e si evitavano stragi e tragedie dolorose” (p. 176)
Nel corso degli anni, quando i barconi carichi di naufraghi diventarono sempre più numerosi, Mussie Zerai salvò la vita a migliaia di naufraghi, ma anche di migranti detenuti o dispersi, o in pericolo. Era diventato l’angelo dei migranti. Scrive:
“Cominciai a ricevere telefonate quasi quotidianamente dall’Eritrea, dall’Etiopia, dal Sudan, dall’Egitto, dal Sinai, da Israele, dalla Somalia, dalla Libia. Un passaparola infinito. I miei recapiti erano diventati un’ancora di salvezza non solo per chi si avventurava sulle ‘carrette del mare‘, ma anche per le famiglie che non avevano più notizie dei loro cari, per i fuggiaschi dimenticati nei lager libici o nei campi profughi, per i giovani prigionieri dei predoni del deserto, per i rifugiati abbandonati a se stessi in Italia.” (pp. 176-177).
Nasce l’associazione e agenzia Habeshia, libera e sostenuta solo dal volontariato
Mussie Zerai non può affrontare da solo quell’immenso compito che si è trovato sulle spalle e al quale non vuole assolutamente rinunciare. È la sua missione. Così, il 31 marzo 2006, fonda, insieme ad alcuni fidati amici volontari romani, presso la Casa Scalabrini di via Casilina a Roma l’agenzia no profit Habeshia “dal nome della zona tra Eritrea ed Etiopia da cui provengo”.
Compiti: monitorare costantemente la situazione e le necessità dei profughi sparsi nelle periferie e nelle baraccopoli della capitale, assicurare assistenza amministrativa e legale ai migranti, promuovere campagne di sensibilizzazione.
Mussie Zerai non vorrà mai chiedere contributi pubblici. L’associazione doveva essere indipendente e vivere dei contributi degli stessi volontari e delle offerte dei privati.
Ciò consentì a padre Zerai di denunciare sempre con totale libertà le cose che non andavano. Si era infatti molto impegnato anche nella denuncia delle repressioni del regime eritero, che ha sempre avuto potenti legami con Roma, oltre che nella denuncia dei lager libici, del degrado in cui erano lasciati spesso i migranti nella capitale da parte delle amministrazioni di ogni colore politico.
Mentre salvava e aiutava migliaia di persone, crescevano intorno a lui anche i nemici. Quei nemici che stanno dietro anche le denunce infondate da cui è stato scagionato.
Tra i 30 mila profughi eritrei in Svizzera
Mussie Zerai corona finalmente il suo sogno. È consacrato prete il 10 giugno 2010 nella medievale chiesa di Santo Stefano degli Abissini, in Vaticano. Forse, scrive, “la più antica esistente dentro le Mura Leonine”. A testimonianza di un secolare legame con la Chiesa di Roma che il fascismo e l’Italia cattolica negli anni del regime ignoravano o disaprezzavano, intrisi come eravamo (e ancora siamo) di razzismo.
A don Zerai viene presto chiesto di occuparsi della numerosa colonia di profughi eritrei presenti in Svizzera: 10 mila nel 2011, saliti a 30 mila nel 2015. Il gruppo più numeroso di richiedenti asilo nella Confederazione. Un modo anche per allontanarlo dalle ripetute minacce che riceve. Ma a Roma torna di tanto in tanto, con discrezione. Anche in Italia c’è bisogno di lui.
“Date degna sepoltura a quelle vittime!”
In questi anni con l’agenzia Habeshia ha continuato ad aiutare, informare, denunciare. Il link con Habeshia è dal primo giorno presente in questo blog, in cima alla lista dei link. È una fonte affidabile di informazioni e di impegno civile in difesa dei migranti.
Il 22 febbraio scorso don Zerai ha pubblicato sul sito di Habeshia un accorato appello alla ministra degli Interni Luciana Lamorgese perché venga data sepoltura alle vittime di un naufragio del dicembre 2019 le cui bare giacciono ancora nel deposito del cimitero di Piano Gatta ad Agrigento. Tra queste anche quelle di sei poveri naufraghi sconosciuti. “Un’attesa lunghissima – scrive don Zerai – dovuta a questioni amministrative e contese legali sulla costruzione di nuovi loculi e la gestione in generale.”.
“Questo doloroso episodio, anzi, offre lo spunto – aggiunge don Zerai – per rilanciare un progetto proposto dall’Agenzia Habeshia ormai diversi anni fa alle istituzioni italiane: realizzare un memoriale che, riunendo le 366 vittime di Lampedusa dell’ottobre 2013, diventi il simbolo delle migliaia di vite spezzate che hanno fatto del Mediterraneo un immenso cimitero. Un sacrario della memoria dove seppellire anche tutte le salme di migranti anonime, come appunto le sei attualmente ad Agrigento, e che diventi un “luogo della memoria”. Intendendo per “memoria” non il semplice “esercizio del ricordo” ma una precisa, doverosa “assunzione di responsabilità”, in modo da capire come possa essere accaduto e possa accadere ancora che tanti giovani debbano morire nel tentativo di realizzare il loro sogno di libertà e di una vita migliore. ”
E ora in Canada
Adesso una nuova destinazione attende don Zerai, il Canada, come scrive su “Avvenire” del 27 maggio Paolo Lambruschi che l’ha intervistato dopo l’archiviazione delle accuse contro di lui. Un Paese, il Canada, di grande immigrazione, anche italiana, e di grande accoglienza di profughi in questi anni.
Noi continueremo a seguirlo. Con attenzione, ammirazione, gratitudine. La sua lezione umana e cristiana è fonte di insegnamento e incoraggiamento per tutti. Il suo libro, Padre Mosè, qui più volte citato, è una delle più importanti testimonianze del nostro tempo sull’universo dolente, segnato da immense tragedie, ma anche carico di speranza, dei migranti.
3 giugno 2022