Quanti ne lasceremo morire?

Foto Centro Astalli

Quanti ne lasceremo morire?

Ieri sono morti altri 100 esseri umani nel Mediterraneo, nel mare di Libia, mentre i capi d’Europa litigavano su come non salvarli. Non li salvi tu? Non li salvo nemmeno io. Infinita miseria d’Europa.

 

Ma quale civiltà c’è da difendere? E da chi? Noi siamo gli assassini dei nostri più grandi valori. La civiltà europea affoga nel mare insieme agli infelici che essa si rifiuta di salvare. E questo crimine si compie tra gli applausi delle folle.

Il Mediterraneo è il nuovo Colosseo. Tutti, o quasi, col pollice rovesciato. Che muoiano, grida il popolo.

Nel circo della politica non c’è posto per la pietà. Il cambiamento è solo un ritorno al Colosseo. Una delle tante vergognose regressioni partorite dalla modernità europea. Spacciata per civiltà. Cos’è una civiltà? Quando i voti valgono più degli esseri umani la civiltà è morta.

Quanti ne lasceremo morire?

L’estate sta riempiendo le spiagge del Mediterraneo. Stesi al sole milioni di italiani e di europei si godranno lo stesso bellissimo mare che sta uccidendo centinaia di esseri umani, loro fratelli e sorelle. Che non vogliono salvare.

Già, alzate pure il volume della musica che non si sentano le urla di chi sta affogando. Che non si sentano i bollettini giornalieri della terza guerra mondiale con i loro freddi elenchi di numeri di morti. Numeri che ci annoiano, non ci infastidiscono neanche più. Ci annoiano.

Ma ogni numero è una vita alla quale non abbiamo riconosciuto il diritto di esistere. Il dramma è, e questo è il vero segno che siamo morti dentro, che non ci importa.

Quanti ne lasceremo morire?

Le navi delle Ong che stanno facendo quello che i governi non vogliono fare, cioè salvare vite umane, verranno bloccate. Intervengano le navi degli Stati se non vogliono quelle delle Ong.

Ma se gli Stati non vogliono, chi salverà quegli infelici? La Guardia costiera libica? Con quale credibilità dopo tutto quello che abbiamo visto e che è stato documentato in questi anni?

Rapporti delle Nazioni Unite, denunce delle organizzazioni umanitarie internazionali, come Medici senza frontiere e Amnesty International, racconti di giornalisti di tutto il mondo, testimonianze di profughi, a centinaia, a migliaia, ci dicono una sola cosa: la Libia è un inferno per i profughi, i diritti umani sono calpestati a piacimento, i centri di detenzione sono più simili a dei lager.

L’unico a vedere una bella struttura di accoglienza in Libia è stato il ministro Salvini.

Come quando l’illustre governante di turno andava in visita nella Russia di Stalin o nella Germania di Hitler o nella Cambogia di Pol Pot. Le prigioni? Trattati bene, ne ho vista una davvero bella. E poi sono tutti così cortesi e gentili. Ci si possono fare assieme degli accordi. Diamogli un po’ di armamenti. D’altronde la strada è stata aperta dal ministro di sinistra Minniti.

Quanti ne lasceremo morire?

Intanto, sotto il sole cocente, quello stesso sole che abbronza i nostri europei che ascoltano musica in spiaggia, migliaia di connazionali africani e asiatici delle povere vittime che affogano in mare lavorano come schiavi nelle nostre campagne, raccogliendo la bella frutta e la bella verdura che poi finisce sulle nostre tavole.

Neanche per questi c’è pietà. Neanche per questi c’è giustizia. Non ci sono contratti di lavoro, non ci sono accoglienze dignitose.

Lavorano per noi, ma per noi contano poco. Anzi, si possono uccidere come è stato fatto con Soumayla Sako, un lavoratore del Mali di 29 anni, ammazzato con un colpo di fucile un mese fa, il 2 giugno, nella piana di Gioia Tauro. Un lavoratore e un sindacalista che si batteva per i diritti dei suoi compagni di lavoro.

Ma sanno gli italiani che se l’Italia ha una legge contro il caporalato, cioè l’intermediazione illegale e per lo più schiavistica tra lavoratore e padrone delle terre, è per merito delle battaglie civili degli immigrati?

È per il coraggio di sindacalisti come il camerunense Yvan Sagnet che nel 2011 organizzò il primo sciopero dei braccianti immigrati dal quale nacque la prima legge italiana contro il caporalato? Quanti lo ricordano?

Aspettavamo delle braccia, sono arrivati degli esseri umani. Che ci hanno dato anche una legge di civiltà.

Quanti ne lasceremo morie?

In questi anni ho ricordato più volte i versi del «Canto degli emigranti». Mai come in questo momento è necessario ricordarli ancora:

Vestiti di stracci, in grandi greggi, noi, carichi di un incredibile dolore, ci recammo nella terra grande e lontana.

Alcuni di noi affogarono davvero.

Alcuni di noi morirono davvero di stenti.

Ma per ogni dieci che morirono un migliaio sopravvisse e tenne duro.

Meglio affogare nell’oceano che essere strangolati dalla miseria.

Meglio ingannarsi da sé che essere ingannati dai lupi.

Meglio morire a modo nostro che essere peggio delle bestie.

 

Questo «Canto degli emigranti» non è di oggi, anche se ci parla di oggi. Perché parla della storia di sempre delle migrazioni.

Lo cantavano gli emigranti tedeschi e italiani che salpavano per le Americhe alla fine dell’Ottocento (J. Mangione – B. Morreale, La storia. Cinque secoli di esperienza italo-americana, SEI, Torino 1996, pp. XVIII-XIX).

Ricordare, dobbiamo. Ci basta ricordare per capire quello che sta accadendo e quello che dobbiamo fare.

 

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Pubblicato sul quotidiano «l’Adige» il 30 giugno 2018 e poi nel libro “Tempi feroci. Vittime, carnefici, samaritani”.