Partono perché vogliono vivere

Perché partono? Perché affrontano questi viaggi pericolosi se sanno di rischiare la vita? Se sanno che magari non saranno accolti neanche bene? È una domanda che tanti si pongono, e che spesso mi pongono. Rispondo con i versi di una canzone.

 

«Vestiti di stracci, in grandi greggi,

noi, carichi di un incredibile dolore,

ci recammo nella terra grande e lontana.

Alcuni di noi affogarono davvero./

 Alcuni di noi morirono davvero di stenti.

Ma per ogni dieci che morirono, un migliaio sopravvisse e tenne duro.

Meglio affogare nell’oceano che essere

 strangolati dalla miseria.

Meglio ingannarsi da sé che essere

ingannati dai lupi.

Meglio morire a modo nostro che essere

peggio delle bestie».

 

Sono versi del Canto degli emigranti. Un canto che sembra di questi nostri giorni. I naufragi nel Mediterraneo si susseguono e in dieci mesi sono morti quest’anno 3.800 profughi: bambini, donne, uomini. Una strage continua, da anni.

Ma il Canto degli emigranti non è dei nostri giorni, è degli ultimi decenni dell’Ottocento, e lo cantavano i migranti tedeschi e italiani che attraversavano l’Oceano per cercare un’altra vita in America.

Questo canto lo hanno pubblicato vent’anni fa due illustri studiosi italo-americani, Jerre Mangione e Ben Morreale, nel loro libro La storia. Cinque secoli di esperienza italo-americana (Torino, SEI, 1996).

Perché partivano?

«Meglio morire a modo nostro che essere / peggio delle bestie».

Qui c’è tutto. Vale per ieri e per oggi.

Quando la vita che fai è insopportabile, per la guerra, per la miseria, per le umiliazioni e le persecuzioni che devi subire, per la mancanza di dignità e di futuro per te e i tuoi figli, cosa fai? Parti.

Parti, e non ti importa dei pericoli.

Parti, perché la voglia di vivere è più forte della paura di morire.

Perché se noi esseri umani non avessimo dentro questo fuoco che ci porta a non accettare per forza la condizione in cui ci troviamo, l’umanità non sarebbe sopravvissuta e non avrebbe fatto passi in avanti.

Questo fuoco gli esseri umani ce l’hanno dentro da sempre, bianchi o neri che siano. Se non l’avessero avuto, i primi uomini non avrebbero lasciato l’Africa dopo alcuni millenni per andare a colonizzare, con rischiosissimi viaggi, il Medio Oriente e poi l’Europa.

Siamo sulla nave. Il giornalista osserva e scrive:

 

«E il peggio era sotto, nel grande dormitorio, di cui si apriva la boccaporta vicino al cassero di poppa: affacciandosi, si vedevano nella mezza oscurità corpi sopra corpi, come nei bastimenti che riportano in patria le salme degli emigrati cinesi; e veniva su di là, come da un ospedale sotterraneo, un concerto di lamenti, di rantoli e di tossi».

 

Sembra la descrizione di certi barconi che arrivano sulle nostre coste o sono salvati dal naufragio dalla nostra Marina militare.

Quegli ammassi di corpi dolenti ci sono tristemente diventati familiari in questi anni.

Ma il giornalista è Edmondo De Amicis, l’autore di Cuore, che compie verso la fine dell’Ottocento un viaggio coi migranti italiani diretti in Argentina e imbarcati su una delle tanti navi che partono da Genova alla volta dell’America, e poi lo descrive con toni accorati nel libro Sull’Oceano, pubblicato nel 1889 (una recente riedizione è quella delle Edizioni Diabasis del 2005, a cura di Giorgio Bertone, con la prefazione di Antonio Gibelli).

Descrive anche il terrore del naufragio durante una tempesta, quell’ossessionante pensiero «del rumore che avrebbe fatto l’acqua irrompendo dentro, in quanti secondi sarebbe giunta all’uscio, il buio repentino, la prima ondata nella gola, e quel dubbio orribile se avrei sofferto per lungo tempo».

Quel terrore che tanti profughi sopravvissuti ai naufragi hanno sperimentato e che ci raccontano, oggi, quando riescono. E quando siamo disponibili ad ascoltarli e non li cacciamo prima ancora di incontrarli, come qualcuno ha voluto far capir in questi giorni con un atto intimidatorio nel paese di Soraga in Val di Fassa.

«Voi accoglierete bene questa gente, non è vero?», vorrebbe dire il giornalista De Amicis, sconvolto da tanta disperata speranza, a un gruppo di ricchi argentini che viaggiano sulla stessa nave, in prima classe.

«Trattateli con bontà e con amorevolezza. Ve ne saremo tanto grati», vorrebbe dir loro, ma si tiene dentro questi pensieri. E poi se ne dispiace. Perché sa che non tutti li accoglieranno bene, li tratteranno con bontà e con amorevolezza.

Nella poesia Gli emigranti, di qualche anno prima, aveva scritto:

 

«Vanno, oggetto di scherno / allo straniero, / bestie da soma, dispregiati iloti [schiavi], / vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti».

 

Quando agli inizi del Novecento gli emigranti europei diretti negli Stati Uniti, tra cui moltissimi italiani, approdavano nel porto di Ellis Island, a New York, dovevano subire spesso umilianti e incivili procedure prima di essere accolti o respinti.

Il Commissario all’immigrazione era William Williams, il quale parlava di

«un’ampia quota di immigrati proviene da razze sottosviluppate e dalle classi più povere dei Paesi più poveri d’Europa»,

e affermava che a causa delle

«caratteristiche nefaste dell’immigrazione attuale […] gli immigrati avrebbero continuato a riversarsi massicciamente in questo Paese e di conseguenza ad abbassare il nostro livello di vita e di civiltà»

(lo ricorda Donna R. Gabaccia nel suo bel libro Emigranti. Le diaspore degli italiani dal Medioevo a oggi, Einaudi, Torino 2003).

Naturalmente gli italiani erano tra i più colpiti dalla furia anti-migranti di Williams.

Sul sito della Liberty Ellis Foundation (www.libertyellisfoundation.org) possiamo trovare i cognomi dei 51 milioni di passeggeri (tra cui 12 milioni di immigrati) che sono transitati per il porto di Ellis Island.

 

Lo studioso di migrazioni Stefano Allievi, in un editoriale pubblicato sul «Corriere del Veneto» del 27 giugno 2015, ci segnalava alcune sue simpatiche «scoperte» cercando tra i cognomi di migranti italiani sbarcati a Ellis Island: 228 migranti con cognome Salvini, 735 Bossi, 266 Maroni, 108 Zaia, 713 Tosi; e poi 1.022 Renzi, 2.130 Alfano, 463 Meloni, 111 Gasparri.

«Immigrati ignoranti, stupidi e indesiderabili che hanno già inondato il Paese di criminali», come scriveva uno dei tanti cittadini che sostenevano il commissario William Williams?

No, Williams e il suo fervente sostenitore erano solo accecati dall’odio razzista e dalla propaganda politica.

Tra i migranti ci saranno stati anche dei ladri e dei violenti, oltre che degli ignoranti e degli stupidi.

Ma i migranti avrebbero costruito la grandezza dell’America. Criminalizzare i migranti in quanto tali era ed è solo razzismo. Ieri come oggi.

Tra i migranti di Ellis Island, «stupidi e indesiderabili, provenienti da una razza sottosviluppata e candidati a essere criminali», come li vedeva il commissario Williams, possiamo trovare naturalmente anche i nostri cognomi (compresi quelli degli attentatori di Soraga, se li conoscessimo). Io ho trovato, ad esempio, 305 Passerini. Ma anche 360 Giovanetti, 10.000 Rossi, 408 Zeni*.

Siamo tutti migranti e figli di migranti.

 

*Giovanetti è il cognome del direttore del quotidiano “l’Adige”, Rossi del presidente della Provincia autonoma di Trento, Zeni dell’assessore provinciale alle politiche sociali. Ma si possono trovare tra i cognomi dei migranti transitati per Ellis Island anche 3.802 Grillo e 1.939 Di Maio.

 

Pubblicato sul quotidiano “l’Adige” il 2 novembre 2016