La “Settimana dell’accoglienza” e le solitudini

Quando atroci operazioni di guerra in cui tanti innocenti perdono la vita ci vengono sbattute quotidianamente in faccia, come è il caso del calvario infinito di Aleppo, se proprio non siamo diventati dei morti viventi, freddi come il ghiaccio, ci chiediamo cosa dovremmo fare per fermare le atrocità, per aiutare quei poveri esseri umani.

Proteste, appelli, mobilitazioni di piazza. Sì, bisognerebbe fare tutto questo.

E non si fa, non si fa abbastanza, con l’eccezione di papa Francesco che invece continua a protestare e a chiamare i potenti a rendere conto di questa disumanità.

Ma c’è una cosa che oggi, adesso, tutti possiamo fare.

Se noi non possiamo fermare i massacri, possiamo però accogliere i sopravvissuti, gli scampati a queste atrocità, a queste guerre, a questi disastri umanitari. Che non troviamo solo ad Aleppo, ma in decine e decine di altre città e regioni del mondo, in particolare nel Vicino Oriente e in Africa. Guerre e disastri spesso dimenticati, di cui non sentiamo mai parlare, ma che non sono meno atroci e disumani.

I fuggiaschi da questi luoghi di morte e di dolore talvolta approdano da noi in cerca di una nuova vita, dopo viaggi altrettanto carichi di dolore e di morte.

Quello che possiamo fare, che ciascuno può fare, è far crescere la cultura dell’accoglienza nelle nostre comunità.

Ciascuno per la sua parte, per quello che si sente di fare.

A volte anche soltanto con una parola di umanità che si oppone al pregiudizio. Ciascuno può tener vivo il sentimento di fraternità in tantissimi modi. E in tutti gli ambiti.

La cultura dell’accoglienza è indivisibile, è un atteggiamento umano che non distingue tra i «nostri» e gli «altri». Perché vede l’essere umano nella sua fragilità e nella sua domanda di aiuto che ci rivolge e alla quale dobbiamo rispondere. L’essere umano, non l’italiano o l’afghano, il nero o il bianco, il cristiano o il musulmano. L’essere umano come tale, chiunque esso sia.

Muove da qui la Settimana dell’accoglienza, che è cominciata sabato primo ottobre e che fino a domenica 9 ottobre vedrà decine e decine di iniziative in tutto il Trentino-Alto Adige, promosse dalle più svariate organizzazioni ma con un unico comune denominatore: far crescere la cultura dell’accoglienza nella nostra comunità.

Perché in una comunità accogliente tutti stiamo meglio. Tutti.

Stanno meglio i profughi, che si portano dietro lutti e violenze; stanno meglio gli anziani, sempre più numerosi e spesso sempre più soli; stanno meglio le famiglie, sempre più fragili e bisognose di supporto; stanno meglio gli impoveriti dalla crisi economica, i giovani in cerca di lavoro, i disoccupati, perché una comunità accogliente si dà dar fare per affrontare questi gravi problemi, non lascia soli quelli che non sono garantiti da uno stipendio o da una pensione, li mette al primo posto dell’agenda politica.

La Settimana dell’accoglienza ha voluto proprio inserire la questione dei profughi, e più in generale degli immigrati, dentro la più ampia questione dei cambiamenti sociali che stanno trasformando le nostre società.

Siamo di fronte a una società dove ci sono sempre più «frammenti», sempre più solitudini, personali e di gruppo.

La solitudine dei profughi, e degli immigrati, è anche quella di tanti anziani, è anche quella di tante famiglie, di tanti giovani, di tanti disoccupati, di tanti poveri. Di tanti non garantiti.

Stiamo creando una società a compartimenti stagni invece di una comunità.

La società dominata da internet e dalla connessione di tutti con tutti è la società di tante solitudini. Un paradosso, ma è così.

I cambiamenti sociali stanno facendo crescere le solitudini, anche se siamo nella società della chiacchiera incessante. La chiacchiera, non la relazione umana.

Qui è il punto, il cuore della questione. Abbiamo bisogno di una profonda e diffusa cultura dell’accoglienza per passare dalla società delle solitudini alla comunità delle relazioni umane.

Non la comunità sulla carta, non quella delle burocrazie o delle propagande etniche. Ma quella dove ogni essere umano, a partire da quello che più ha bisogno, non si senta solo o rifiutato. Che sia un anziano o un profugo, un disoccupato o una madre sola.

 

Pubblicato sul quotidiano «l’Adige» il 3 ottobre 2016