Il popolo profugo dei Rohingya perde il suo grande leader progressista

Mohib Ullah

“Le minacce di morte erano diventate parte della sua vita”, ha scritto Hanna Beech sul “New York Times” del 2 ottobre scorso.

Mohib Hullah, 46 anni, fondatore e leader dell’Arakan Rohingya Society for Peace and Human Rights, è stato ucciso il 29 settembre nel campo profughi di Katupalong, in Bangladesh, il più grande del mondo, che accoglie 600 mila profughi Rohingya dei 900 mila accolti nel distretto di Cox’s Bazar.

Ancora non sono stati individuati gli assassini. Quattro-cinque persone armate sono entrate nella sua baracca piena di carte e documentazione sui crimini contro i Rohingya e gli hanno sparato, uccidendolo.

In quel momento nella baracca c’era anche il fratello di Mohib, Habib Ullah, che però non è stato colpito.

Il regime birmano, dalla cui spietata oppressione sono fuggiti in massa i Rohingya rifugiandosi in Bangladesh, attribuisce la responsabilità a gruppi armati dei ribelli Rohingya.

Ma è chiaro che Mohib Ullah rappresentava per il regime birmano una costante e autorevole fonte di accusa a livello internazionale dei crimini compiuti dalla Birmania contro i Rohingya.

Mohib Ullah stava infatti raccogliendo una mole imponente di documentazione per portare di fronte alla giustizia internazionale il regime birmano.

Come scrive Hanna Beech, Mohib aveva lavorato come amministratore e insegnante di scienze (aveva studiato botanica) prima di emergere come leader dei Rohingya fuggiti nel settembre del 2017 in Bangladesh dopo una serie impressionante di repressioni e massacri che avevano assunto le dimensioni di un vero e proprio genocidio.

In quella occasione la leader birmana Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace, non aveva difeso i Rohingya.

Mohib Ullah era impegnato nell’enorme sforzo non solo di documentare i crimini subiti dalla minoranza musulmana Rohingya, ma anche di portare all’attenzione internazionale la tragica situazione del suo popolo privato di ogni diritto.

Nel 2019 era stato alle Nazioni Unite a Ginevra dove gli era stato concesso di parlare per due minuti. Ma in quel pochissimo tempo era riuscito a fotografare con drammatica efficacia la situazione:

“Immaginate di non avere identità, né etnicità, né paese, nessuno che ti vuole. Come ti puoi sentire?”

Ha lasciato la moglie Naseema Begum e nove figli.

“Una perdita di enorme portata” hanno dichiarato le Nazioni Unite.

 

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