Schiavi delle milizie

Un libro che bisogna leggere per capire cosa succede ai profughi in Libia.

Alpha Kaba, 32 anni, faceva il giornalista nella Guinea Conakry.

Ora fa il giornalista in Francia.

Ma tra i due momenti ha vissuto l’inferno. In Libia. E in mare.

 

 

Alpha Kaba

Schiavi delle milizie

Traduzione di Sarah Ventimiglia

Prefazione di Nello Scavo

Quarup, Pescara 2020, pagine 142, euro 14,90

 

 

In questo piccolo, denso, indimenticabile libro l’autore racconta la sua vita nella Guinea Conakry, la famiglia, l’infanzia, la giovinezza, i progetti e i sogni.

Poi la partenza per l’Europa. Come è finito in un lager libico. Le condizioni terribili di vita. L’uso organizzato e barbaro dei profughi come schiavi nei cantieri e nei campi. Un sistema ben collaudato.

E poi il viaggio in mare, in troppi, stipati dagli scafisti, su un gommone. Salvati per fortuna dall’Aquarius, la nave dell’Ong Mediterranea.

È facile capire che tutto avviene con la tolleranza, la corresponsabilità, la compartecipazione delle autorità, politiche e militari, libiche. Quelle che noi sosteniamo e finanziamo perché facciano queste cose. L’uso dei profughi-schiavi è una miniera d’oro per l’economia libica alla quale tutti attingono.

 

Alpha Kaba

 

“Siamo migliaia di schiavi di un’economia ben rodata”

Qui riportiamo alcuni passi – non dei più atroci – del libro, dove Alpha descrive il suo arrivo come schiavo in un cantiere edile.

 

“La macchina si ferma. Il telone viene sollevato. Luce.

Billo, Abdoulaye e Diaye escono per primi. Alla fine riesco ad uscire anch’io. I muscoli si tendono con dolore.

Ci troviamo in un cantiere. Paesaggio stranamente familiare. Muri grigi, terreno sabbioso, un cortile e una casa in costruzione. Il posto sembra calmo. Dietro lo stabile scorgo la cima di un minareto e i tetti di qualche edificio.

Smarrito avanzo verso il gruppo. Noto due guardie, in disparte, armate di mitragliatrici. E poi, davanti a noi, lo vedo. In piedi, al centro del cortile, grosso, barbuto, indossa una djellaba ingiallita dal deserto.

“Vieni qua! Qua davanti!”

Eccolo, è lui il mio padrone.

Dietro al cantiere, l’edificio che si trova di fronte a noi diventerà un giorno una casa enorme, per il momento non è niente.

Pareti e pavimenti dei primi tre piani sono già costruiti. Ma c’è ancora molto da fare.

Nel cortile si trovano dei sacchi. Il nostro compito: riempirli e portarli su fino all’ultimo piano. Un’occhiata ai sacchi basterebbe a far perdere la testa a chiunque. Il compito sembra impossibile, anche perché il viaggio e la prigionia mi hanno tolto le forze: ho il corpo gracile e martoriato.

Eppure, è impossibile tirarsi indietro: la sola vista delle mitragliatrici rende vana ogni protesta. Qui, o si serve o si muore.

…Mi carico il sacco sulle spalle…Cammino verso l’edificio…I gradini che mi stanno di fronte sembrano montagne, ma più alte e difficili…Poi tocca al secondo, terzo, quarto sacco….

Sollevare, camminare, svuotare…

(…)

Ho capito, non siamo una decina di Negri sottomessi alla crudeltà di pochi uomini. Siamo centinaia, se non addirittura migliaia; semplici pedine di un’economia ben rodata.

Qui tutto è organizzato nei minimi dettagli. La gerarchia dei padroni, dei miliziani, delle guardie. Ci sono gli schiavi che possono essere comprati, come noi, proprietà esclusiva del padrone, e poi ci sono quelli che possono essere presi in prestito, come quelli che arrivano ogni giorno nel cantiere….

Con la guerra in Libia i lavoratori  stranieri che operavano nel settore edile e agricolo se ne sono andati via, la manodopera ha iniziato a scarseggiare e quella che resta era troppo cara. Noi serviamo fondamentalmente a rimpiazzare quegli uomini.

Il viavai continuo di rifugiati del Campo fa capire come questa rete tentacolare sia nata per rispondere a quei nuovi bisogni.

…Io e gli altri schiavi temiamo tre cose: prima di tutto le percosse, poi la morte e infine la follia.”