I doveri di questa generazione

La spaventosa tragedia della notte fra sabato 18 e domenica 19 aprile che ha visto un barcone con più di settecento (forse novecento) profughi a bordo rovesciarsi tra la Libia e Lampedusa e lasciare infine pochissimi superstiti è l’ultimo e più angosciante capitolo di un dramma che non è solo italiano o europeo.
È un dramma mondiale.
È la grande responsabilità di fronte alla quale è messa la generazione presente.

 

Da dove fuggono

 

Cinquanta milioni i profughi nel mondo. Fuggono dalle guerre, dalle persecuzioni etniche, religiose, politiche, dalle carestie e dalle catastrofi ambientali.
Fuggono soprattutto dall’Afghanistan, dalla Siria, dalla Somalia, dal Sudan, dalla Repubblica democratica del Congo, dal Myanmar, dall’Iraq, dalla Colombia, dal Vietnam, dall’Eritrea.
Le ripetute tragedie delle carrette del mare che affondano nel Mediterraneo possono darci l’impressione che sia l’Europa la maggior interessata dall’esodo dei profughi.

 

I Paesi poveri accolgono l’86% dei profughi

 

In realtà, come ci ricordano le Nazioni Unite, l’86% dei profughi è accolto nei Paesi del cosiddetto Terzo mondo.
Il maggior peso di questo immenso dramma mondiale non grava sui Paesi più ricchi. I più poveri gravano sui più poveri: questa è la verità.
Il solo Libano accoglie 850 mila profughi e ha quattro milioni e mezzo di abitanti. I richiedenti asilo nel 2014 nell’intera Europa sono stati di meno: 626 mila, di cui 62 mila in Italia.
Erano arrivati 170 mila profughi in Italia, ma la maggior parte di loro (circa 100 mila) se n’è andata subito a chiedere asilo politico in altri Paesi europei.
Il Pakistan accoglie un milione e 600 mila profughi, l’Iran 850 mila, la Giordania 641 mila, la Turchia 609 mila, il Kenya 534 mila, il Ciad 434 mila, l’Etiopia 433 mila. Sono i Paesi poveri che accolgono il maggior numero di rifugiati.

 

Muoiono o sono uccisi lungo il viaggio

 

E un’infinità di drammi non raggiungono le cronache. Molti profughi muoiono lungo il viaggio, come i poveri morti nel Mediterraneo.
Ma muoiono anche nei deserti, muoiono negli immensi campi profughi, muoiono di malattia, denutrizione, freddo, caldo. Uccisi dai trafficanti di organi, dalle bande armate di rapinatori. E chi sopravvive finisce per vivere spesso in condizioni disumane.
La sola guerra di Siria ha fatto 220 mila vittime in quattro anni e ha provocato una marea di profughi.
L’Eritrea è un carcere a cielo aperto da dove ogni mese fuggono quattromila persone; la Somalia un Paese da decenni senza guida e senza speranza e in balia di bande e gruppi armati di ogni colore.

 

La nostra grande responsabilità

 

Le persone fuggono e cercano un rifugio. Che altro potrebbero fare? Che altro faremmo noi? Cosa dovrebbe fare un giovane eritreo? Vivere o morire in un carcere a cielo aperto o cercare la vita altrove?
Ogni generazione è messa di fronte a delle drammatiche responsabilità. Nessuna vi sfugge. E questa generazione ha davanti a sé questo immenso dramma dei profughi e dei rifugiati.
Può reagire in tanti modi, come le generazioni precedenti reagirono di fronte al dramma della persecuzione degli ebrei (o degli armeni): con l’indifferenza, o l’incomprensione, o dando credito alla propaganda politica, oppure cercando di capire, di aiutare, di proteggere, di accogliere.
Anche se questo costa: costa impegno e denaro. Costa fatica. Vuol dire farsi carico di problemi e di fastidi. Come per il samaritano del Vangelo. Gli altri non si erano fermati mica perché erano cattivi: no, perché non volevano fastidi, avevano le loro famiglie cui badare, i loro affari, i loro impegni, e non potevano certo spendere soldi e tempo per un ferito sconosciuto.

 

Quella crudeltà ci sembrava impossibile

 

Alla nostra generazione sembrava impossibile che qualche decennio fa degli ebrei in fuga dalle persecuzioni del nazismo e del fascismo fossero stati respinti da Paesi democratici, come la Svizzera o l’Inghilterra o gli Stati Uniti. Ma era accaduto.
Non c’era posto, dicevano, erano troppi, tornino indietro. Creavano problemi, davano fastidio, non se ne poteva più. E per tanti di loro fu una sentenza di morte.
Ci sembrava impossibile che fosse accaduto.
Ma oggi sappiamo perché può accadere. Senza che le coscienze si sentano scosse. Le coscienze sono abili nel crearsi una corazza, una corazza di buone ragioni.

 

Pubblicato su ladige.it il 21 aprile 2015