«Era esperta di Welfare, impegnata nel Terzo Settore e nella cooperazione sociale da studiosa e esperta, nella fondazione Zancan a lungo presieduta da don Giovanni Nervo, un laboratorio di vero riformismo di questo Paese, e nell’Iress, proponeva un welfare «municipale e comunitario», si potrebbe dire personalista, attento alle persone: la sanità, la scuola, i servizi sociali, le famiglie, i bambini, «affezionata allo Stato»: «Negli anni in cui sembrava prevalere “il privato è bello” comunicavamo una aspettativa positiva nei confronti del pubblico». (Marco Damilano)
Dall’amore con Prodi alle passioni politiche. Addio a Flavia Franzoni, anima gentile dell’Ulivo
di Marco Damilano
“Domani”, 13 giugno 2023
È morta improvvisamente Flavia Franzoni, la moglie dell’ex premier Romano Prodi, mentre passeggiava su un sentiero francescano. Esperta di welfare, impegnata nel terzo settore, non ha mai cercato un ruolo sulla scena. È il volto di un’Italia pulita affezionata allo Stato
Flavia c’era sempre, c’è sempre stata, insieme a Romano. “Insieme”, si intitolava il loro libro, scritto come tutto il resto, insieme.
Erano insieme anche ieri, quando Flavia Franzoni Prodi se n’è andata, all’improvviso, tra Perugia e Assisi, durante una delle camminate per i sentieri dell’Italia centrale che per loro significava l’inizio delle vacanze, come quelle verso Santiago di Compostela, «con sette ciclisti e quattro mogli alla guida di automobili al seguito», raccontava Flavia.
Fare un viaggio con loro in macchina, pigiati in tre dietro, voleva dire passare caselli autostradali, strade di campagna, luci nella notte e paesi all’orizzonte, il profilo di un’Italia che conoscevano in ogni angolo e che li appassionava. Per ogni luogo un racconto, una curiosità.
L’ultima volta in Veneto, dopo una serata a Bassano del Grappa, avevamo parlato di Marostica, la città degli scacchi viventi.
Erano insieme, da sempre, entrambi reggiani, con sette anni di differenza. Il matrimonio, il 31 maggio 1969, celebrato dall’allora amico don Camillo Ruini con il nuovo rito post conciliare, con duecentocinquanta invitati, «tantissime», scriveva Flavia, «gli amici di tutte le fasi della nostra vita, dalla scuola all’università, ai colleghi, agli amici della parrocchia e persone casualmente presenti alla cerimonia», unico assente, perché al solito in ritardo, uno dei testimoni, il professor Beniamino Andreatta.
La nascita dell’Ulivo
Erano insieme, Romano e Flavia, quando nell’estate del 1994 il Professore decise di impegnarsi in politica, al potere c’era Silvio Berlusconi, in un incredibile intreccio di destini. «Bisogna fare qualcosa…», mormorò don Giuseppe Dossetti nella piccola cella di Monte Oliveto, non c’era spazio, Flavia si poggiava sul suo letto. Non parlava, «scrisse su una lavagna parole che non abbiamo mai dimenticato». Nacque l’Ulivo.
Ricordo la festosa allegria con cui Romano e Flavia, con Arturo Parisi che era con loro ieri, e Sandra e Roberta Zampa, raccontavano la primavera 1995. Impossibile distinguere una voce dall’altra, come separare due fiumi.
La partenza del pullman, «fatta in casa», per la prima tappa Romano prese una cartina del Touring, puntò il dito sul Sud, a occhi chiusi: Tricase, provincia di Lecce. «Non sapevamo neppure se ci fosse un teatro, a Tricase…». Nello studio del Professore c’è la foto di loro due, Romano e Flavia, davanti alla sala da cui cominciò il giro d’Italia, terminato un anno dopo, il 21 aprile 1996, con la vittoria dell’Ulivo di Prodi sulla invincibile armata di Berlusconi, la festa in Santi Apostoli.
Il sogno
Erano insieme, ancora, nella notte più bella, il coronamento di un sogno e di un progetto. Primo gennaio 2002, i bancomat di mezza Europa diffondono le prime banconote di euro. Prodi, presidente della Commissione europea, è a Vienna, le usa per regalare un mazzo di rose rosse e bianche a Flavia, raggiante, bellissima. Un pensiero romantico ma anche un tributo.
Era esperta di Welfare, impegnata nel Terzo Settore e nella cooperazione sociale da studiosa e esperta, nella fondazione Zancan a lungo presieduta da don Giovanni Nervo, un laboratorio di vero riformismo di questo Paese, e nell’Iress, proponeva un welfare «municipale e comunitario», si potrebbe dire personalista, attento alle persone: la sanità, la scuola, i servizi sociali, le famiglie, i bambini, «affezionata allo Stato»: «Negli anni in cui sembrava prevalere “il privato è bello” comunicavamo una aspettativa positiva nei confronti del pubblico».
Era lei, che non mai cercato un ruolo sulla scena, l’anima sociale dell’Ulivo e l’intelligenza che non smetteva di ragionare sulle soluzioni più utili, attenta a ogni innovazione. Era Flavia, accanto a Romano, il volto di un’Italia del dopoguerra pulita, limpida, tenace, ironica, discreta, un volto nascosto, come sconosciuti sono i tanti volti e le tante persone che mandano avanti questo Paese.
Era la mamma di Giorgio e Antonio e una nonna in dialogo con le generazioni successive. La loro casa di via Gerusalemme a Bologna è sempre stata aperta e a un certo punto, immancabimente, la discussione finiva al tavolo della cucina.
L’ultima volta abbiamo parlato a Roma, a lungo, si faceva sera, c’era la penombra e una coperta sul divano, la discussione continuava. Flavia c’era sempre, c’è sempre stata, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, in tutti i giorni della vita. Una coppia di laici cristiani non sarà mai separata, con Romano ci sarà sempre. «Insieme», scriveva Flavia, «siamo diventati in tanti». E questo aumenta il rimpianto.