I profughi istriani e noi

I profughi istriani e dalmati che tra il 1943 e la metà degli anni ’50 furono costretti ad andarsene, e a lasciare tutto, non trovarono una buona accoglienza in Italia. Nemmeno in Trentino. Anna Maria Marcozzi Keller, finita a Rovereto con la sua famiglia, ricorda  che “l’indifferenza ostile fu totale”. In città, a scuola, sui posti di lavoro.

(Articolo di Vincenzo Passerini pubblicato in questo blog il 19 febbraio 2021)

 

Alle medie la professoressa di lettere la mise in fondo alla bancata:

Imparai che c’erano due trattamenti diversi: per i “siori” e per i “poreti” e noi profughi eravamo fra questi: poveri, sporchi e fascisti”.

Alla Manifattura dicevano: ‘Vengono a rubarci il pane, le case e gli uomini’. E in Comune le donne profughe che chiedevano condizioni più umane furono così apostrofate: ‘Cosa volete, cosa siete venute a fare a Rovereto, ritornate da dove siete venute!’.

I ricordi di Anna Maria Marcozzi Keller sono tratti dal volume “Volti di un esodo”, curato da Elena Tonezzer e pubblicato nel 2005 dal Museo Storico in Trento.

Il libro raccoglie gli atti di un convegno del maggio 2003, nato su stimolo del Forum trentino per la pace, che allora presiedevo, dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, di cui Anna Maria Marcozzi Keller è sempre stata un’esponente di primo piano, e del direttore del Museo Storico di Trento, Giuseppe Ferrandi.

Volevamo, insieme, recuperare una verità storica dolorosa, per troppo tempo nascosta e impedita da pregiudizi politici. Quel convegno e quella pubblicazione segnarono una svolta nella memoria locale di quei tragici fatti.

Riassume la storica Elena Tonezzer, curatrice del volume:

Gli esuli si trovavano di fronte la sostanziale indifferenza, quando non l’aperta ostilità, delle genti trentine…ostilità e indifferenza soprattutto da parte degli strati medio-bassi della comunità trentina.

 

Il volume curato da Elena Tonezzer e pubblicato dal Museo Storico in Trento.

 

L’atteggiamento di ostilità verso i profughi era alimentato da due pregiudizi.

Il primo ideologico: soprattutto da parte comunista, gli esuli giuliani e dalmati erano considerati tutti fascisti.

Il secondo pregiudizio era legato alla paura, in particolare da parte degli strati più deboli della società, di vedersi ridurre le possibilità di avere casa e lavoro per colpa dei nuovi arrivati, ancor più poveri.

Lo ricordano anche gli storici Gianni Oliva e Raoul Pupo nei loro libri, fondamentali, sulla tragica vicenda degli esuli dalmati e istriani. Questi due pregiudizi accompagnano la storia dei profughi di ogni tempo. La tragica storia dei profughi. Trattati male a casa loro, e costretti ad andarsene, e poi trattati male nel paese che li accoglie.

Vittime due volte, anzi, tre volte. Perché tra il luogo d’origine, diventato ostile, e il nuovo luogo d’approdo, che ti accoglie con ostilità, c’è spesso anche un viaggio duro e pericoloso. Non meno ostile. Vittime tre volte, con conseguenze spesso traumatiche che rimangono per sempre in tante vite di esuli. Ferite mai rimarginate. Così fu per gli italiani di Istria e Dalmazia.

Così è oggi. Vittime innocenti e vittime tre volte. Non si riflette mai abbastanza sulla condizione tragica del profugo. Ieri eri bollato come “fascista”, oggi come “terrorista”. Ieri e oggi “ladro di lavoro”, “ladro di case”, ladro della tua vita. Diverso, pericoloso, miserabile, indegno di te.

E la propaganda e gli interessi di partito soffiano sui pregiudizi, si ingrassano della guerra tra poveri. Sempre e ovunque  è così. Non si impara nulla dal passato, né da quello che si è subito. Anzi, a volte quello che si è subito diventa, per uno dei tanti misteri neri dell’animo umano, un motivo in più per far subire agli altri i torti, le umiliazioni, le ostilità, le emarginazioni che hai subito tu.

Lo storico Gianni Oliva cita un passo autobiografico di Marisa Brugna, ragazza istriana cresciuta in uno dei 120 campi profughi sparsi nelle varie regioni italiane, che parlando di sé in terza persona cerca di spiegare le ragioni della sua rabbia:

Era la ribellione alla diversità, all’espressione di commiserazione vista troppe volte e su troppi volti; era la cancellazione di occhiate indagatrici stupefatte e risatine soffocate… ; era riportare al silenzio i borbottii di chi la giudicava; era spegnere gli sguardi che sapevano penetrare fin nel profondo ferendola e sconvolgendole le viscere. Era il rifiuto di quella povertà estesa come il cielo e pesante come il macigno. Era la rabbia per quella prigionia.

(G. Oliva, Esuli. Dalle foibe ai campi profughi: la tragedia degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia, Mondadori, 2009, pp. 56-57).

Quando passate davanti alla “residenza” Fersina, oggi triste luogo di ammasso di profughi a Trento, risultato disumano della distruzione di tanti piccoli luoghi di accoglienza locali, quando incontrate un profugo o una profuga, pensate a Marisa Brugna.

 

Pubblicato sul quotidiano “Trentino” il 13 febbraio 2020.