La rabbia dei poveri sfida la politica: destra e sinistra pari sono?

Discarica di Korogocho-Nairobi, Kenya. (Foto di Francesco Fantini)

Tendiamo tutti a pensare allo stesso modo?

L’individualismo, sia sul fronte etico sia su quello sociale ed economico, accomuna le diverse culture politiche?

La scuola di formazione 1998 della Rosa Bianca.

 

La rabbia dei poveri sfida la politica: destra e sinistra pari sono?

 

Il programma della scuola estiva di formazione 1998 dell’Associazione Rosa Bianca e della rivista “Il Margine”. Sotto, la facciata B del programma con la presentazione e le note organizzative.

 

 

 

Intervento di apertura

di Vincenzo Passerini

 

Nelle Lodi del sabato della terza settimana del salterio c’è un cantico che riprende alcuni versetti del libro della Sapienza. Vi si dice anche:

Io sono tuo servo e figlio della tua ancella, uomo debole e di vita breve, incapace di comprendere la giustizia e le leggi.

Abbiamo ormai imparato a deporre ogni arrogante pretesa di tutto capire e tutto sapere e tutto spiegare: noi cristiani in primo luogo; ma anche tutti noi uomini e donne di questo Occidente, mai così potente e così fragile. La consapevolezza dei nostri limiti ci è ormai fedele e salutare compagna.

 

Umili e modesti

A proposito di questo riconoscerci servi, così scrive il cardinale Carlo Maria Martini nel discorso di Sant’Ambrogio del 5 dicembre dello scorso anno:

I riconoscerci servi ci ricorda che siamo di fronte a un compito immensamente più grande di noi, affidatoci da Dio don un gesto di fiducia.

Il riconoscersi servi inutili rende liberi e sciolti nel presente: liberi dal peso insopportabile di dover rispondere ad ogni costo a tutte le attese, di dover essere sempre, perfettamente all’altezza di tutte le sfide storiche di ogni tempo.

Questa libertà e scioltezza ci rende umili e modesti, disponibili a fare quanto sta in noi, a riconoscere quanto ci sta ancora davanti, ad ascoltare e a collaborare; con semplicità e senza pretese.

Con questo spirito la nostra associazione, con l’aiuto di tanti autorevoli relatori, si appresta ad affrontare un tema così importante, difficile, decisivo.

 

Siamo pronti per il XXI secolo?

È un tema che travaglia tutte le culture politiche, non solo quella cattolica, non solo quella di sinistra, non solo quella italiana.

Il quotidiano “la Repubblica” di domenica 23 agosto 1998 pubblicava un articolo di Jerome Bindé, direttore dell’Ufficio Analisi e Previsioni dell’Unesco, che così, quasi brutalmente, cominciava:

Siamo pronti per il XXI secolo? Se l’umanità vuole sopravvivere, si dovranno raccogliere in tempo quattro grandi sfide.

[Prima sfida:] Il XXI secolo sarà sinonimo di crescenti disuguaglianze, di una povertà senza precedenti, fianco a fianco con un’inaudita ricchezza, difesa dai vetri blindati dell’apartheid sociale e urbana?

Tra il 1980 e il 1996 la crescita economica è stata notevole in una quindicina di paesi, con una popolazione complessiva di un miliardo e mezzo di abitanti, buona parte dei quali hanno visto aumentare i propri redditi.

E contemporaneamente, in cento paesi vi è stato declino o stagnazione, con il conseguente calo del reddito per un miliardo e seicento milioni di individui.

E dopo aver elencato altri dati affermava:

La libertà non avrà un futuro se non al prezzo della giustizia, della condivisione e della solidarietà.

Mentre, sotto la pressione dei mercati mondiali, il vecchio contratto sociale del 1945 – lo stato sociale – si sgretola e si sfalda, e il necessario nuovo contratto sociale non si è ancora trovato. Bisognerà inventarlo.

E poi proseguiva parlando delle altre tre sfide: lo sviluppo sostenibile, l’esigenza di una guida democratica mondiale, la pace.

 

Ingiustizie intollerabili

Nel suo bellissimo messaggio per la giornata della pace del 1° gennaio di quest’anno, il Papa ha parlato con concretezza e coraggio della fame di giustizia, fondamento della pace:

La sfida è quella di assicurare una globalizzazione nella solidarietà, una globalizzazione senza marginalizzazione. Ecco un evidente dovere di giustizia, che comporta notevoli implicazioni morali nell’organizzazione della vita economica, sociale, culturale e politica delle Nazioni…

Se l’obiettivo è una globalizzazione senza marginalizzazione, non si può più tollerare un mondo in cui vivono fianco a fianco straricchi e miserabili, nullatenenti privi persino dell’essenziale e gente che sciupa senza ritegno ciò di cui altri hanno disperato bisogno.

Simili contrasti sono un affronto alla dignità della persona umana.

Il cardinale Martini parla esplicitamente di rabbia dei poveri, poveri che però oggi stentano a far sentire la loro voce, a farsi prestare attenzione, persino da coloro che almeno la geografia politica – non più l’ideologia – dovrebbe porre al loro fianco.

 

 

La discarica di Korogocho alla periferia di Nairobi, Kenya, dà da vivere a migliaia di persone. Foto di Francesco Fantini tratta dal libro “W Nairobi W” , con testi di Alex Zanotelli e Daniele Moschetti e foto di Francesco Fantini e The Korogocho’s Children,  EMI, 2004.

 

La corsa al centro marginalizza i poveri

La corsa al centro li marginalizza, i poveri. Questa corsa al centro, che pare un frutto inevitabile di un sistema bipolare per quanto acerbo, lascia da parte i temi fastidiosi, scomodi.

Pare esserci una corsa a chi tranquillizza di più, a chi più si dimostra disponibile a cullare le ragioni di chi ha paura di perdere il benessere acquisto.

In questa corsa al centro sembrano particolarmente attrezzati i cattolici, anche se un po’ tutti ne stanno copiando la consumata abilità nel destreggiarsi in tale guerra di posizione.

Non è singolare che ci si trascini questa maledizione per cui mai c’è una stagione in cui i cattolici, in virtù del magistero evangelico che li costituisce, ma anche di un magistero ecclesiale abbastanza inequivocabile, possano essere finalmente in prima fila nel portare avanti anche politicamente le ragioni della parte umiliata dell’umanità, vicina e lontana?

Con creatività – quella creatività cui ci richiamava l’ultimo Dossetti – con concretezza, consapevoli di tutte le mediazioni che la politica impone, ma, ci sarà mai una stagione in cui i cattolici saranno in prima fila, politicamente, dalla parte degli ultimi, senza pigrizia e reticenze? Senza lasciare questo compito a pochi coraggiosi, isolati, spesso sconfitti e poi, ma da defunti, venerati?

Certo, dal centro si governa e, si dice, è chi governa oggi che fa la politica che conta.

Se riduciamo la politica a questo, non lamentiamoci poi se essa non anima più il cuore delle persone, non le solleva dal loro spazio personale per proiettarle in una dimensione più ampia, non dà ad esse quell’energia che fa camminare l’umanità verso ideali grandi e grandi valori.

Forse perché sono finite le ideologie debbono finire le grandi speranze, i grandi ideali, i grandi valori?

Che senso della vita dovremmo mai andare a proporre? Mangiate, divertitevi, accoppiatevi, e morite senza scocciare?

Non solo. Questa teorizzazione del governo quasi come unica dimensione di una azione politica che non voglia rimanere velleitaria, dimentica alcune cose.

 

Con Prodi sono tornate le ragioni profonde del fare politica

Non c’è dubbio che il governo dell’Ulivo a guida Prodi è stato un fatto di enorme significato per far uscire il nostro paese dall’angolo inquietante in cui si era cacciato.

Ricordava il Presidente del Consiglio recentemente che si risparmiano ora 50.000 miliardi all’anno di interessi sul debito pubblico. Anche questo, va riconosciuto, è un modo serio per difendere le ragioni dei più deboli.

Ma non dimentichiamo che il governo Prodi è nato dopo una fase di sconfitta e di opposizione. Senza quella fase Prodi non ci sarebbe mai stato.

Prodi non è il frutto di una politica del governo ad ogni costo, ma di una politica che ha saputo ritrovare in un momento difficilissimo per il nostro paese le sue ragioni più profonde, più autentiche, che ha saputo ridare speranze attingendo al meglio della cultura politica cattolica, di quella di sinistra, di quella liberale.

Guai ridurre la politica al governo.

 

Intrecciare memoria e futuro

Una delle caratteristiche della nostra associazione è sempre stata quella di intrecciare memoria e futuro. In tutte le nostre scuole, ma anche in tutte le nostre attività, abbiamo sempre cercato di pensare al futuro ricordando.

Anche oggi, mentre apriamo la nostra scuola, pensiamo al futuro ricordando.

 

Ricordando, innanzitutto Roberto Ruffilli, che dieci anni fa veniva ucciso dalle Brigate Rosse (il 16 aprile 1988). Dieci anni: è poco, eppure sembra un’era geologica, che accentua l’assurdità di quell’assassinio politico, per quanto probabilmente ispirato da menti esperte.

Ruffilli era un cristiano mite e un eccellente studioso dei problemi strutturali della nostra democrazia.

La prima volta che la scuola della Rosa Bianca si spostò a Brentonico, nel 1983, Ruffilli fu uno dei relatori e parlò anche in una indimenticabile serata, insieme al prof. Ardigò, a Paolo Giuntella, a Pietro Scoppola, del sacrificio e della lezione cristiana e politica di Vittorio Bachelet e Aldo Moro, pure loro vittime del terrorismo brigatista, e non solo di quello (parentesi, ma mica tanto: cos’è questo disgustoso e diffuso ossequio verso il ritorno sulla scena politica del senatore Francesco Cossiga di cui non ricordiamo un irreprensibile comportamento nei giorni del delitto Moro?

Di questo passo riabiliteremo anche la P2 che occupava tutti i vertici militari dello Stato nei giorni del sequestro e del delitto Moro? Anche su queste cose bisogna esercitare la memoria, come ci ha invitato il fratello di Moro, Alfredo Carlo, magistrato, col suo libro Storia di un delitto annunciato che abbiamo presentato a Roma durante l’assemblea della nostra associazione).

Ruffilli, nell’intervento alla serata in ricordo di Moro e Bachelet condensò in cinque passaggi fondamentali la loro lezione, una lezione più attuale che mai: la necessità di tenere unite riforme di strutture e conversione personale; la politica come forma più alta della carità; la speranza, che sempre ci deve accompagnare, perché il male alla fine non può avere la meglio; l’educazione all’assunzione di responsabilità; infine, il metro di giudizio per il cristiano in politica che non può essere il successo, ma il fatto di combattere la buona battaglia a prescindere dai risultati.

 

Ricordiamo il grande teologo Bernard Häring, scomparso il 3 luglio scorso. Ha contributo a ripensare evangelicamente la teologia morale, una morale che libera, che incoraggia, che esalta l’aspetto positivo delle persone, non una morale che spaventa. Ci ha insegnato ad essere “liberi e fedeli”. Liberi e fedeli. Di questa libertà e fedeltà noi oggi abbiamo più bisogno che mai in questa stagione di crescente conformismo ecclesiale, di paura della critica, di clericalismo avanzante. La libertà ci è stata data, noi la dobbiamo far fruttare.

 

E con lui ricordiamo il cardinale Anastasio Ballestrero, anch’egli recentemente scomparso (il 21 giugno, Arcivescovo di Torino, fu presidente della Cei dal 1979 al I985. In una intervista rilasciata alla rivista “ll Regno” nei giorni di Pasqua, Ballestrero ricordava che l’unico compito della Chiesa è l’accoglienza di Cristo. È l’annuncio del mistero della Croce. Mentre oggi, tra progetti culturali, organizzazione, strutture si rischia di perdere l’essenziale.

E concludeva parlando della Chiesa povera e della Chiesa dei poveri, della Chiesa che non e né una azienda, né una cultura, né una teologia. Una altissima lezione spirituale, quella di Ballestrero, tanto più indispensabile in giorni come questi in cui sembra che non siano il denaro e il potere i nemici della Chiesa, ma lo Stato italiano e la guardia di finanza).

 

Un vescovo dalla parte dei poveri è stato Juan Gerardi, assassinato il 26 aprile scorso, a colpi di pietra. Vescovo ausiliare e vicario generale di Città del Guatemala, Gerardi era sempre stato con i più poveri, contro i poteri militari ed economici, in un paese che ha avuto in una spaventosa e lunga guerra civile: 150.000 morti, 50.000 desaparecidos, 200.000 orfani, 40.000 vedove, 1 milione di profughi.

Diceva:

Se dò da mangiare ai poveri dicono che sono un buon vescovo; se chiedo perché i poveri non hanno da mangiare, dicono invece che sono un comunista.

Diceva anche che

la verità fa male, ma è necessaria, salutare e liberatrice.

Un nuovo martire della Chiesa latino americana e della Chiesa universale.
Ma se le Chiese nel loro insieme fossero più coraggiose, più libere, non cesserebbe forse anche questa sequela di martiri?

 

La memoria si fa, infine, a noi molto prossima col ricordo del nostro amico Francesco Pedani, che è stato uno dei più solidi ed entusiasti animatori della Rosa Bianca. Se n’è andato dopo due anni e mezzo di lunga e straziante malattia, ancora giovane, lasciando la moglie Vivina e due bambini, Pietro e Tommaso. È la prima scuola della Rosa Bianca a Brentonico che facciamo senza di lui. Lo scorso anno ci aveva mandato un messaggio registrato.

Però gli amici sanno quante cose anche belle sono accadute attorno a quel suo straziante letto di dolore, nella sua casa di Firenze, quanta fede è rinata, quante preghiere sono tornate a ridare coraggio e speranza alle persone che a Francesco si avvicinavano o pensavano.

Per tanti il mistero scandaloso del dolore che salva, della Croce che salva, si è un po’ svelato lungo la malattia di Francesco.

Lui ci ha lasciato serenamente, invitandoci a continuare il nostro impegno, stando attenti ai problemi concreti delle persone. Con questa scuola siamo certi di aver risposto anche al suo invito.

***

 

La relazione introduttiva è stata pubblicata su “Il Margine”, n.8, 1998 insieme alla “Lettera aperta al Presidente del Consiglio, on. Romano Prodi” della Presidenza della Rosa Bianca, con cui si è conclusa la scuola, firmata da Vincenzo Passerini, Marco Damilano, Fabio Caneri.

 

 

 

Gli Atti della scuola sono stati pubblicati nel n. 6/7, 1999 del “Margine”.