Ci salveranno i figli di un Dio minore

Figli di un Dio minore. Abbiamo sempre delle minoranze che ci salvano. Curioso e affascinante paradosso trentino.

Furono le minoranze di lingua tedesca a consentire al Trentino di rivendicare sulla base dell’accordo Degasperi-Gruber (firmato a Parigi il 15 settembre 1946) quell’esercizio di un potere legislativo ed esecutivo autonomo che italiani e austriaci, con la benedizione delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, avevano individuato come il solo capace di sanare le ferite della prima guerra mondiale.

 

L’Accordo Degasperi-Gruber e il richiamo alle minoranze tedesche

Per tutto l’Ottocento i trentini, minoranza italiana del Tirolo austriaco, avevano invece, invano, energicamente chiesto la stessa autonomia.

I trentini si sentivano diversi, particolari, con caratteri loro propri sia dentro l’Impero austriaco sia dentro il Regno d’Italia.

Ma questa loro particolarità non fu mai riconosciuta dall’Austria e lo fu, infine, solo dalla Repubblica italiana, ma soltanto grazie a quel discusso richiamo alle minoranze tedesche contenuto nell’accordo Degasperi-Gruber.

Non si continua a dire, infatti, che lo Statuto di autonomia, varato dalla Costituente, è fondato sull’Accordo di Parigi?

Ancor oggi, nello stanco dibattito sul futuro della Regione Trentino-Alto Adige e sulla revisione dello Statuto di autonomia, si avverte il peso di quel “limite originale”: cioè che i trentini l’autonomia non la ottennero per il fatto di essere storicamente e culturalmente particolari, come essi si avvertivano, ma in virtù di presenze molto minoritarie e ancor più atipiche al loro interno, quali quelle di lingua tedesca (mocheni-cimbri) e ladina.

È qui anche l’origine dell’imbarazzo odierno che caratterizza il dibattito sul futuro dell’autonomia. Assottigliandosi il legame istituzionale con la grande minoranza tedesca altoatesina, basteranno le nostre minoranze interne a garantire un fondamento sufficiente alla giustificazione dell’autonomia?

La sentenza della Corte costituzionale che nel 1998 ha bocciato la riforma elettorale regionale sembra dire di sì. Ma questa figliolanza dell’autonomia da queste esili minoranze quanto reggerà?

 

Un’autonomia speciale fondata anche su altre ragioni

E allora si riscoprono le ragioni antiche dell’autonomia trentina, quelle che non furono mai riconosciute né dall’Austria né dal1’Italia.

Ragioni che forse si sarebbero dovute coltivare in questi decenni con più convinzione.

Alcune:

il ruolo delle autonomie locali come espressione di una radicata cultura della responsabilità più che della questua;

la consapevolezza, da tradurre nel concreto delle istituzioni e delle scelte politiche, della comunanza di vicende storiche e culturali con l’area tedesca, pur essendo “italiani”;

la conseguente capacità di muoversi agevolmente, per l’imprenditore e l’intellettuale, tra Vienna e Milano, tra Salisburgo e Bologna o Padova o Venezia;

il rigore e l’efficienza, dell’amministrazione pubblica;

la sobrietà, personale, civile, politica, se non la propensione all’austerità.

Ma non è mai troppo tardi per tirar fuori dal cassetto queste ragioni antiche, non solo per sventolarle sotto l’incubo della perdita dell’autonomia, ma per concretizzarle comunque e in ogni caso, qualsiasi esito potrà avere il dibattito sull’assetto istituzionale futuro.

Se erano ragioni di sostanza, tali rimangono.

Resta il fatto che furono le ragioni di piccole minoranze a fondare istituzionalmente l’autonomia trentina come oggi la conosciamo.

 

Altre e inconsuete minoranze stanno “salvando” il Trentino

Ma ora altre, nuove, inconsuete minoranze linguistiche e culturali, ma anche religiose, stanno “salvando” i1 Trentino.

Questa volta non istituzionalmente, ma demograficamente. In questo senso l’uso dell’impegnativa parola “salvare” appare ancor più giustificato.

Marocchini, albanesi, serbi, croati, macedoni, bosniaci, colombiani, rumeni, polacchi, senegalesi, in rigoroso ordine di consistenza; e poi sudamericani in genere, pakistani, e via di seguito, per un totale di 10.594 residenti (dati al 31 dicembre 1998, cfr. Rapporto sulla situazione economica e sociale del Trentino nel corso del 1998, Provincia autonoma di Trento, Servizio statistica, luglio 1999), consentono al Trentino, con la sua ridottissima natalità, tra le più basse d’Europa, di poter avere un futuro.

I permessi di soggiorno rilasciati sono 16.000 all’inizio del 1999 per immigrati appartenenti a ben 145 differenti nazionalità.

I figli degli immigrati, che riempiono le culle lasciate vuote dai trentini, e i nuovi immigrati consentono alla popolazione trentina, di crescere di 2.967 unità rispetto al ’97.

E così 1.700 scolari nel 1999 (stima verosimile: erano 1.560 nell’anno scolastico 1998/99 per 90 nazionalità) dalle materne alle superiori, figli di immigrati, consentono di salvare classi, scuole, posti di insegnamento.

Erano soltanto 376 nel 1993, all’inizio della, precedente legislatura.

La nuova legislatura ne registra cinque volte tanti. E

secondo le indicazioni fornite dai primari del servizio di neonatologia dell’Azienda provinciale per i Servizi sanitari – scrive il Rapporto – quasi un nato su sei nel 1998 ha riguardato famiglie straniere.

Fra sei anni, cioè, saranno almeno il 15% a scuola, contro l’attuale 5% (e fra vent’anni?). E per il centenario dell’accordo Degasperi-Gruber?

 

Senza gli immigrati non c’è futuro

Senza gli immigrati il Trentino non avrebbe futuro. Invecchierebbe paurosamente, consegnandosi a una morte lenta ma inesorabile.

Non ci sarebbero sufficienti braccia per lavorare, teste per pensare, energie per realizzare.

Il fenomeno dell’immigrazione, dice il citato Rapporto, ha assunto peculiarità, non solo strutturali e irreversibili, ma anche di estrema, portata, sul piano della trasformazione e dell’impatto per la locale società.

E aggiunge:

Sempre più importante risulta poi l’apporto fornito dalla componente immigrata al sistema produttivo provinciale, specie in corrispondenza dell’agricoltura e di alcuni comparti dell’industria e del terziario, rispetto ai quali la manodopera straniera sta diventando quasi esclusiva.

Salvatori anche dell’economia.

Nuove minoranze salvano il Trentino e scrivono un altro, ben più radicale, dirompente e del tutto imprevisto capitolo della nostra storia (mi viene da pensare al versetto 22 del Salmo 118, che poi Gesù applicherà a se stesso: “La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo”).

 

Un invito alla responsabilità e alla comprensione

Trovo curioso e affascinate questo cruciale passaggio, come lo è sempre la storia degli uomini, così imprevedibile e misteriosa per quanto essi cerchino di afferrarne la logica e prevederne gli sviluppi. Dopotutto Eric J. Hobsbawm ha scritto alla fine de Il secolo breve (Garzanti, 1995, p. 673):

Questo libro può dirci quanto poco sappiamo e quanto sia stata straordinariamentei povera la comprensione della realtà da parte di coloro che nel corso del secolo hanno preso le decisioni pubbliche più importanti; quanto poco essi si aspettavano e ancor meno prevedevano ciò che avvenne in seguito, specialmente nella seconda metà del secolo.

Una constatazione, umile, e un’accusa, dura. Ma anche un invito alla responsabilità della comprensione.

Quest’anno la scuola estiva di formazione politica dell’associazione Rosa Bianca e della rivista, Il Margine, che dal 1983 si teneva a Brentonico, si è spostata in Puglia, ad Oria, in provincia di Brindisi, per affrontare proprio il tema dell’immigrazione.

Titolo della scuola, che si è svolta da1 26 al 29 agosto: “Spezzare le catene. Immigrati e oppressi provocano l’Europa”. Uno sforzo per capire, andando in un contesto regionale di frontiera e che ha saputo mobilitare magnifiche energie di volontariato per affrontare le emergenze.

 

Non un’emergenza, ma un fenomeno duraturo

Però, e riprendo l’ampia e puntuale analisi del professor Paolo Bonetti di Milano che ha svolto una delle relazioni introduttive: è tempo di non pensare più all’immigrazione in termini di emergenza. Come fa invece la stessa legislazione italiana, come fanno televisione e giornali che enfatizzano gli sbarchi di immigrati in Puglia, quando la maggior parte dell’immigrazione verso l’Italia passa attraverso altre strade (e qui ha ricordato la frontiera con la Slovenia che registra passaggi ben superiori di quelli pugliesi ma di cui nessuno parla).

Questa, spettacolarizzazione del fenomeno impedisce di coglierne le caratteristiche vere:

non è momentaneo, ma destinato a durare alcuni decenni;

non è soltanto italiano (un milione e mezzo di stranieri, il 2,6% della popolazione), o europeo (diciotto milioni nell’Unione Europea, il 5% della popolazione), o americano (tra i1 ’90 e il ’98 sono stati sei milioni gli immigrati negli Stati Uniti): è un fenomeno planetario, non solo tra il Sud e il Nord, ma tra gli stessi Paesi e continenti del Sud dove si registra la maggior parte del fenomeno migratorio; per cui, ormai, non si parla più di migrazioni, ma di risistemazione della popolazione del mondo.

Infine, non è un fenomeno nuovo ma ha interessato da sempre la storia dei popo1i. Tutti siamo discendenti di immigrati.

 

Che fare?

Le dimensioni del fenomeno, la sua persistenza e consistenza, l’impatto enorme che esso provoca richiedono di uscire dalla cultura dell’emergenza, dell’assistenza, della buona volontà e del tamponamento.

Bisogna:

considerare l’immigrato non come un emarginato ma come una persona, e come tale responsabile, portatore di diritti e di doveri;

governare il fenomeno, non pretendere di arginarlo;

non amplificare gli aspetti negativi, ma dare voce a quelli positivi (arricchimento culturale, economico, sociale);

preparare una società multietnica, che è nelle cose, non nelle intenzioni (affrontare seriamente la questione scolastica, religiosa, familiare).

E poi: è tempo di smettere di considerare l’immigrato destinatario di politiche di intervento che lo riguardano e non invece protagonista.

C’è da riflettere, anche per i1 Trentino.

Più integrazione positiva ci sarà, più protagonismo, più responsabilizzazione e meno ci sarà spazio per la delinquenza, il disagio, l’emarginazione.

 

“Siamo stati chiamati, non siamo venuti”

Ron Kubati, giovane albanese, dottorando in filosofia all’università, di Bari, ha tenuto un’altra delle relazioni. Se n’era fuggito dall’Albania con la prima ondata, poco prima che il regime crollasse.

Con suo fratello Ervin aveva scritto uno dei primi libri sull’Albania contemporanea (Venti di libertà, e gemiti di dolore, testimonianza raccolta e introdotta da Renato Brucoli, Insieme, Molfetta, 1991), che presentammo anche a Trento, e vi aveva raccontato le spietatezze di quella dittatura.

S’era portato lo sguardo triste, la poca fiducia negli uomini, l’assenza di speranza. La vita in Italia l’ha addolcito, ma l’ha avuta dura. E continua ad averla. Ancora non é cittadino italiano, e dopo aver fatto enormi sacrifici per studiare si trova a fare il dottorando senza borsa di studio.

Vive lavorando di sera, il sabato, la domenica. La sua è stata una relazione dottissima, critica, disincantata, che ha spiazzato tutti (ma l’avevamo invitato per questo).

Siamo stati chiamati, ha detto Ron, non siamo venuti. L’Occidente si è proposto/imposto come unica prospettiva. L’Occidente ci ha iniettato così la fine di noi stessi; presentandosi come positività totale ha distrutto l’alterità. Questo è il vero razzismo: quello che nasce sulla fine dell’alterità. E che si rivela come altruismo truccato.

Ron sta pubblicando un romanzo. Presenteremo anche questo a Trento.

 

Le istituzioni rovesciano i loro compiti sul volontariato

Padre Mario Marafioti,fondatore della comunità Emmanuel, è venuto con alcuni volontari.

Lui ha parlato pochissimo, tre minuti, ha lasciato che parlassero loro.

I quattro volontari hanno raccontato la loro esperienza nei due centri di accoglienza che la comunità gestisce e che in quattro mesi hanno visto il passaggio di 4.500 persone.

Prima gli albanesi, poi, ultimi, i rom, che scappavano da tutti. E che le istituzioni poco aiutano, rovesciando così sul volontariato un mare di problemi, di dolori, di attese.

I profughi sono scarsamente informati, anche sull’asilo politico. Dopo anni di emergenze le istituzioni non hanno ancora imparato a fare bene il loro mestiere.

La comunità Emmanuel lavora anche in Albania sul fronte della tossicodipendenza e della devianza giovanile. La droga sta spopoando. Loro cercano una “via albanese” al recupero.

I volontari non sono oratori. Dietro le loro scarne e rapide parole c’è però un intero universo. Non si fermano a pranzo. È sabato. Con discrezione uno di loro mi dice che devono tornare a lavorare nei loro centri perché di sabato i problemi non riposano.

 

Tempo di liberazione, non di paura

Dalla relazione di Giovanni Invitto, dell’Università di Lecce: “C’è la paura della fine del nostro mondo, e non è una situazione nuova. L’Occidente, sin dai primi decenni del Novecento, ha avuto paura del suo exitus (del suo risultato finale).

Allora facevano paura la tecnica e la democrazia. Dal Tramonto dell’Occidente di Spengler alla Krisis husserliana, al tradimento intellettuale denunziato da Benda, alle parentesi della storia e nella storia segnalate da Croce, tutta la prima metà di questo secolo è stata attraversata da un senso di morte. E ciò è alla base dell’antimoderno di Charles Peguy e dello stesso Jacques Maritain, del disagio della civiltà segnalato da Freud, della crisi della civiltà temuta da Huizinga …

Ma temiamo di più un’altra morte: quella culturale ed etica. Il mescolamento delle razze, dei linguaggi, dei costumi, delle religioni pare la soluzione finale di questi esodi planetari …

Siamo in uno spazio storico in cui, alla permanenza delle identità che convivono, manca un comune substrato etico, nell’accezione hegeliana del termine.

Non basta declamare o praticare individualmente i valori, essi debbono secolarizzarsi, mediarsi, storicizzarsi, materializzarsi in normative, strumenti istituzionali, oltre che in atteggiamenti diffusi.

C’è bisogno di un lessico valoriale comune: non di un esperanto artificioso, ma di una koinè, come confluenza e convergenza di più lessici” (koiné: “comunità, linguistica o culturale che si sovrappone a una preesistente pluralità di aree linguistiche o culturali”, dizionario Zingarelli).

Anche per i cristiani si aprono tempi nuovi, non di paura ma di liberazione, ha aggiunto Giovanni Invitto. È il tempo della Parola che feconda senza asservire e che si lascia fecondare dalla parole degli altri:

Offrire la Parola a tutti, perché cresca e riveli sensi e segni nuovi, a1 di là, dell’ossificata ermeneutica dell’Occidente; cresca con le altre parole, ibridandosi con le altre culture e con i nuclei di senso delle altre culture, senza rinunziare all’essenziale di fede, ma vedendo in cosa il Dio che non ha nome ha assunto nomi diversi.

 

Spezzare le catene delle culture e delle fedi

“Spezzare le catene. Immigrati e oppressi provocano l’Europa”. Era questo il titolo della scuola della Rosa Bianca, dopotutto.

Analizzare i1 fenomeno dell’immigrazione significa anche immergersi in noi stessi, non solo registrare lo spezzarsi delle catene di interi popoli che si liberano e ci scuotono.

Significa dunque spezzare anche le nostre catene, quelle che imprigionano le nostre culture e le nostre fedi. Che le hanno spesso rese sterili.

Un sogno? Che la prima, grande riflessione culturale sulle nuove minoranze in Trentino sia organizzata congiuntamente dall’Istituto mocheno-cimbro e da quello ladino. Ne potrebbe venire una capacità di riflessione sulla tutela e valorizzazione delle minoranze difficilmente riscontrabile altrove.

Lo potrebbero fare anche con quel po’ di grinta, che non guasta: sono le minoranze a essere tutelate o sono esse a tutelare, vuoi 1’autonomia vuoi la sopravvivenza? Se non qualcosa di più?

 

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Testo pubblicato nel libro Ricordati che sei stato straniero anche tu.

Originariamente pubblicato in Aa. Vv., Per il Trentino che verrà, a cura di Giuseppe Ferrandi, n. 4, ottobre 1999, “Pagine Federaliste”, periodico dell’associazione culturale Società Aperta.

Questo numero contiene scritti di: Walter Micheli, Renato Ballardini, Günter Pallaver, Agostino Valentini, Bruno Dorigatti, Silvia Sandri, Giuseppe Ciaghi, Angelo Giovanazzi, Gregorio Arena, Vincenzo Passerini, Cinzia Fedrizzi, Ettore Bonazza, Vincenzo Calì, Giorgio Rigo, Paolo Tonelli, Walter Nicoletti, Mario Cossali, Arrigo Monari, Wanda Chiodi, Roberto Pinter, Giuseppe Ferrandi, Silvio Trentin, Leo Valiani.